Un sacerdote di frontiera, un missionario bergamasco che ha speso 25 anni per i nostri emigranti, prima a Seraing (Belgio), poi a Neuchâtel. (Svizzera), offrendo loro un punto di riferimento chiaro e certo. Promotore nel 1991 del Circolo di Neuchâtel, dell’Ente Bergamaschi nel Mondo, don Pietro Natali lascia un vuoto immenso in quanti lo hanno conosciuto e affiancato nella sua opera pastorale. Nato a Pognano il 31 dicembre 1938, ci ha lasciato il 7 gennaio 2023, a Osio Sotto.
Il Consiglio Direttivo dell’Ente Bergamaschi nel Mondo, unitamente ai Circoli e ai Corrispondenti dell’EBM sparsi nel mondo, partecipa con profondo cordoglio al lutto e, facendosi interprete dei sentimenti della grande famiglia degli emigranti bergamaschi, eleva alla Sua memoria una preghiera e un pensiero di rispettosa vicinanza.
Per conoscere la figura di don Pietro Natali, pubblichiamo, per gentile concessione, la testimonianza dello stesso don Pietro rilasciata ad Antonio Carminati, presidente del Centro Studi ValleImagna, che, per conto dell’Ufficio Migranti di Bergamo, ha curato la realizzazione di due pubblicazioni “Preti fra i migranti”, riguardanti i sacerdoti diocesani di Bergamo che sono stati missionari in Europa, al seguito degli italiani all’estero.
Il prete rimasto per sempre con gli emigranti nel cuore
I ricordi dell’infanzia di Don Pietro ci riportano nel contesto contadino della pianura bergamasca, in una famiglia caratterizzata da un profondo senso religioso. Dopo aver prestato servizio a Capriate e a Redona, arriva la decisione di trasferirsi all’estero e, nel 1975, quella di Seraing, in Belgio, è la sua nuova comunità, nella quale vivere una dimensione pastorale dalla parte dei più poveri: gli emigranti. Una realtà non facile, neppure semplice, dove gli aspetti umani e religiosi si intrecciavano in un contesto particolare. Don Pietro si è lasciato coinvolgere collaborando con le famiglie, i gruppi e le associazioni. A Seraing convivevano molte culture, stili di vita articolati, mentalità e forme religiose diverse. “Casa Nostra”, come era stata denominata la Missione Cattolica Italiana, si era organizzata per rispondere alle molteplici esigenze, proponendo spazi di incontro, servizi e iniziative per una reciproca conoscenza e valorizzazione. La collaborazione delle suore contribuiva a rafforzare l’opera di apostolato tra gli emigranti. I rapporti con le istituzioni locali sono stati generalmente positivi e si può parlare di una dinamica sociale che ha portato ad un progressivo inserimento, fatto di condivisione e non solo di convivenza, ma l’integrazione di una comunità di emigranti è un’altra cosa. La propaganda del Governo italiano nel dopoguerra aveva costruito il miraggio del lavoro facile, duro ma gratificante. La realtà della miniera è stata altro. Le conseguenze per i minatori drammatiche. Don Pietro ricorda e rivive la tristezza di quelle case dove si consumavano esistenze dedicate al sacrificio e alla fatica. Pur essendoci situazioni personali diverse, le contraddizioni dello sradicamento, anche sui sentieri dell’emigrazione clandestina, hanno continuato a manifestarsi in modo significativo fino alla costruzione di tante case nella terra d’origine, destinate a rimanere chiuse, facendo sgretolare un castello di sogni. Nel 1984 Don Pietro viene trasferito a Neuchâtel: a causa di problemi di salute aveva chiesto infatti un avvicinamento. Solo, su un vasto territorio, si è trovato ad affrontare un’altra situazione. Anche in terra elvetica, comunque, il nostro missionario ha condiviso i problemi e le lotte per la giustizia. Con spiccate capacità di analisi, Don Pietro mette in luce i caratteri distintivi del fenomeno migratorio, sottolineando gli aspetti più evidenti, ma dando anche un senso alle dinamiche individuali e sociali. Dopo aver trascorso sedici anni a Neuchâtel, il rientro in Italia è stato più difficile del previsto. Resta il ricordo di una maggiore coerenza, di attività e servizi costruiti quotidianamente sulla base delle concrete esigenze delle persone. Il ruolo stesso del sacerdote, qui in Italia, è percepito diversamente. I venticinque anni dedicati agli emigranti sono stati quelli più ricchi sotto il profilo umano e religioso: ripercorrerli insieme, fino alle considerazioni finali, è una grande emozione che fa riflettere.
Sradicamento dalla terra e pendolarismo
Non aspettatevi grandi cose da me. Sul tema delle migrazioni ho organizzato diversi incontri anche a Tagliuno, la parrocchia dove attualmente sono parroco, con l’Ufficio Missionario Diocesano, presso il quale potrete trovare molte altre informazioni sul fenomeno migratorio e le sue espressioni salienti in terra bergamasca. Mi chiamo Pietro Natali e sono nato a Pognano, un paese della pianura bergamasca, il 31 dicembre 1938. Giunto ormai al settantacinquesimo anno di età, ripenso agli anni della mia infanzia trascorsi in campagna, in una famiglia di contadini mezzadri, sui terreni di proprietà dei signori Brolis e Longo, i possidenti più importanti dell’area, presso i quali il papà lavorava. Primo di sei figli viventi (due sorelle sono morte ancora piccole), sono cresciuto frequentando i cortili del borgo rurale, tra case e stalle di proprietà del padrone che le diverse famiglie utilizzavamo per condurre le attività agricole. La giornata era scandita da alcune azioni principali: durante il periodo scolastico, la levata era alle sette e, dopo una breve colazione a base di polenta e latte, faceva seguito la messa mattutina; poi si andava a scuola. Il pomeriggio la mamma ci trovava sempre qualcosa da fare. I compiti erano presto fatti e bisognava accudire oche e anatre, galline e maiali. L’estate invece, dopo avere partecipato alla mèssa prima, la vita proseguiva in campagna, all’aria aperta, impegnati nei diversi lavori agricoli. Le mucche e gli altri animali da cortile erano nostri, mentre in forza del contratto di mezzadria dovevamo rendere al padrone il cinquanta per cento dei prodotti ricavati dalla lavorazione della terra. Il denaro scarseggiava, anzi posso dire che la nostra economia non si fondava sul denaro, ma sul lavoro. Non si acquistava niente alla bottega e anche il pane lo facevamo noi, in casa, con la farina del nostro frumento e il latte delle mucche. La mamma – poveretta! – era sempre indaffarata, con i molti lavori che premevano nella campagna e nella stalla, in aggiunta alla tenuta della casa e ai sei figli da allevare. Povera donna! La nostra stalla, con due mucche e un paio di buoi, era già una buona stalla, perché non tutti potevano disporre di tanti quadrupedi. Era la nostra “caldaia”, ossia l’unica fonte di riscaldamento per l’inverno: i parenti, anche gli operai impegnati in fabbrica durante il giorno, si ritrovavano la sera proprio nella nostra stalla, dove gli adulti discutevano i loro problemi, mentre noi ragazzi ci trastullavamo con piccoli giochi, oppure ascoltando i racconti degli anziani. Prima di andare a letto, poi, sempre accompagnati dalla mamma, non mancava la recita del rosario, col sottofondo del ruminare delle mucche, seguita dalle litanie della Madonna. Infine, giunti in camera, non ci si coricava senza avere recitato, con la mamma accanto, ol Pàter e altre preghiere di riconciliazione con i nostri santi e i cari defunti. Si iniziava sempre, mattino e sera, con il Vi Adoro… La mia formazione nasce nel contesto contadino della pianura bergamasca. Pognano era allora un piccolo villaggio rurale, con i suoi poco più di ottocento abitanti. Le famiglie erano quasi tutte contadine, anche se un forte gruppo di uomini andava già a lavorare in bicicletta alla Dalmine, altri nelle industrie alla periferia di Milano, pur provvedendo sempre alla coltivazione della terra, con il sostegno di donne e ragazzi. Più avanti, poi, verso gli anni Sessanta, molti giovani hanno rotto definitivamente l’antica relazione con la terra e la maggior parte di essi si è dedicata al lavoro nell’edilizia, quali cottimisti muratori e stuccatori. Tutto sommato si era creata una situazione economica abbastanza florida, per l’ingresso in paese di una grande quantità di denaro mai vista prima. Però si è interrotto un atavico rapporto con la terra e l’ambiente. Il fenomeno dell’emigrazione interna alla regione di appartenenza ha dato luogo al pendolarismo; soprattutto gli uomini uscivano dal paese la mattina per fare ritorno in famiglia solo la sera. Molti abbandonarono definitivamente il lavoro della terra. Pochi quelli che, negli anni Cinquanta e Sessanta, si sono trasferiti all’estero. Per la verità l’emigrazione si era presentata molti anni prima, tra l’Ottocento e i primi lustri del Novecento, soprattutto verso l’America Latina. Alcuni nostri parenti, con i quali attualmente abbiamo perso completamente i contatti, si erano trasferiti in Argentina proprio in quel periodo. I miei genitori ogni tanto li ricordavano, ma io non li ho mai conosciuti. Il papà non ha mai rinunciato al lavoro di sempre e si compiaceva della sua bella stalla, giacché la nostra famiglia viveva in parte anche grazie al latte che vendevamo alla latteria. Non producevamo stracchini o formaggi e gli unici soldi di cui la mamma poteva disporre erano quelli ottenuti dalla vendita delle uova delle galline nel pollaio. Poi si vendeva anche un po’ di frumento e il primo reddito agrario dell’anno, pur limitato, era quello derivante dalla coltivazione dei bachi da seta. Avevamo solo il nostro lavoro e gli animali della stalla, perché anche la casa dove si viveva era del padrone. Nonostante tutto ciò, il papà era orgoglioso del suo mestiere e aveva partecipato anche ad alcuni corsi di agricoltura. Insomma, era contento.
Lo zio barba faceva ol regiùr e teneva la borsa
Il papà allevava sempre due maiali tutti gli anni: li acquistava ancora piccoli per tenerli all’ingrasso nella stalla e ottenere poi un po’ di carne e insaccati. L’uccisione del maiale, durante l’inverno, era una festa per tutta la famiglia. L’estate, invece, c’era il taglio del frumento, tutto a mano. Si partiva la mattina presto e alle sei bisognava essere già in campagna a lavorare. Verso le nove ci raggiungeva la mamma con il caagnöl , il cesto dentro cui trasportava il pane preparato la sera prima e lievitato la notte. Il papà si alzava molto presto la mattina, accendeva la stufa e inseriva il pane nel forno, prima di andare a governare le mucche nella stalla. Così, quando ci alzavamo noi, l’ora appresso, il pane era cotto. Pane, salame e pancetta costituivano lo spuntino a metà mattina per i lavoratori nei campi. La domenica, invece, molte volte il papà acquistava mezza testa di manzo (che costava di meno) da far bollire per ottenere il brodo. Ogni tanto preparava anche la bösèca . I soldi non circolavano, anzi scarseggiavano sempre. Frutta e verdura non si acquistava e si consumavano i prodotti coltivati nei campi. Avevamo alcuni filari di uva e altre piante da frutto con cui la mamma produceva le marmellate. Poi, dovendo allevare i caalér, si coltivavano i gelsi: le foglie servivano per l’alimentazione dei bachi da seta, mentre con le more la mamma preparava la marmellata. Il frumento prodotto veniva diviso a metà con il padrone. Il giorno fissato per la battitura, interveniva il fattore, inviato dal padrone, con il compito di assistere alla divisione del prodotto. Egli controllava che gli ettolitri, ossia le unità di misura in legno utilizzate per la ripartizione, fossero equivalenti. Era questo un momento delicato, perché si definivano i frutti del nostro lavoro. Il frumento veniva poi disteso sull’aia per l’essicazione e ogni ora si rifacevano dei nuovi solchi con i piedi nudi per esporlo meglio al sole e all’aria. La sera, poi, si raccoglieva e copriva con un telone, mentre la mattina successiva si distendeva di nuovo, fin quando non risultava ben essiccato. Una parte del terreno veniva invece coltivato a erba da fieno che si tagliava nel periodo estivo e veniva depositato, una volta essiccato, nel fienile, per le mucche e i buoi l’inverno. Noi ragazzi avevamo il compito di calpestarlo in continuazione, favorendo la sua ottimale compattazione. La nostra famiglia lavorava a mezzadria circa ottanta pertiche di terreno. Con noi viveva anche il fratello maggiore del papà, mio zio Giovanni, rimasto celibe. Era lo zio barba e agiva da regiùr: era lui a tenere la borsa, a rappresentare la famiglia all’esterno e a gestire il nostro pur limitato patrimonio, perché il bilancio familiare era unico. Noi potevamo stare al freddo, ma i bachi da seta no e ad essi era riservata la stanza del camino, il locale più caldo della casa dove quelle larve venivano bene alimentate. La vendita dei buoi andava a favore del macellaio del paese o dei paesi vicini. L’acquisto di altri quadrupedi più giovani costituiva un altro momento importante per la nostra famiglia. Il papà o lo zio si recavano a piedi al mercato del bestiame di Montichiari o di Rovato. Partivano di buonora, la mattina, anche alle due o tre di notte, per arrivare sul posto all’alba e potere visionare il bestiame migliore. Se fossimo riusciti nell’impresa, saremmo rientrati il pomeriggio con i nuovi buoi al seguito, sempre a piedi. Negli anni successivi si avvalevano del sensàl per la trattativa. In tal caso, anziché con il solito “cavallo di San Francesco”, si recavano al mercato sull’automobile del mediatore (al quale riconoscevano le spese per il viaggio): concluso l’affare, poi, rientravano con i buoi percorrendo le strade di sempre. Al ritorno il papà aveva sempre qualcosa anche per noi, allora bambini, che ci accontentavamo di un po’ di frutta o di poche caramelle. Erano avvenimenti importanti per la famiglia e la stalla così si rinvigoriva, con nuovi animali da lavoro pronti a sostenere ulteriori fatiche. I me lasàa mia lé a fà negót Quando ero ancora un giovinetto, trascorrevo l’estate in campagna con mio fratello. La mattina, prima di dare il via ai lavori che spettavano a noi ragazzi, andavamo alla messa dell’aurora, che allora si celebrava alle sei; poi c’era la solita polenta e latte e, già alle sette, ci si avviava nei campi, con una vera e propria processione di animali da portare al pascolo: prima le mucche, a seguire i tacchini, le oche, le anatre, quindi la carretta con i polastrèi e, sopra la carretta, ol caagnòt con i pulcini. Giunti sul posto e liberati i nostri animali nel prato, la giornata proseguiva per noi con i sempre molti impegni: strappare l’erba nel campo delle patate, lavarla nella roggia dei fontanili e stenderla sul prato a seccare per farla diventare fieno, …
I me lasàa mia lé a fà negót
A mezzogiorno, poi, arrivava il papà con il pignetì. Dentro c’era solo un po’ di minestra di lardo. A volte, ma erano casi rari, c’era la minestra di latte con le castagne secche sbucciate e bollite, che il papà acquistava o scambiava con altri prodotti, perché noi non le avevamo. A mezzogiorno bisognava stare leggeri, perché il pomeriggio il lavoro continuava nella campagna. Noi ragazzi si consumavamo un pasto frugale, all’esterno, sull’aia o nel campo, non certo seduti al tavolo, in compagnia di cani, gatti, galline, rondini, … insomma si era immersi nella natura, circondati da tanti animali e… ciononostante siamo cresciuti lo stesso. La polenta si preparava solo la sera. Al ritorno da messa prima, la mattina, passando vicino alle case del borgo, sentivamo già le donne che battevano il lardo per preparare la minestra di mezzogiorno. Con l’approssimarsi della stagione invernale la mamma preparava anche la minestra di latte e zucca. Una vera prelibatezza. Terminate le scuole elementari, il mio maestro mi spingeva perché mi iscrivessi all’associazione ciclistica “Fiorenzo Magni” di Boltiere, di cui era il Presidente, per correre in bicicletta. A quell’età – avevo allora dieci o undici anni – appena potevo prendevo la bicicletta, anche all’insaputa dei genitori, e pedalavo sin verso Sarnico e Lovere. Quando poi tornavo a casa, ai sintìe sö, ossia mi attendevano i richiami “convincenti” dei genitori (il dialogo allora era fatto con l’uso delle mani e öna stropa), già preoccupati per la mia assenza. Quando osai dire al papà che la mia intenzione era quella di correre in bicicletta… mi fece correre “a piedi”, altro che bicicletta!… Nella vita in famiglia e nel lavoro in campagna, pian piano è nato ed è cresciuto il desiderio di fare il prete. Ero uno dei tanti chierichetti della parrocchia e partecipavo volentieri a tutte le messe, anche feriali, all’attività catechistica, ai quaresimali, … Ma soprattutto vivendo in un ambiente familiare dove la preghiera e la vita religiosa erano alla base dei nostri comportamenti, dalla mattina alla sera, è nata ed è cresciuta l’inclinazione verso la bellezza della missione sacerdotale. Era un modo per confermare e fissare per sempre una pratica di vita che mi convinceva. In quel periodo non ero attratto dal modello missionario. Il modello di prete era quello del mio parroco, ossia connesso alla vita di parrocchia: un prete diocesano inserito nel contesto del piccolo borgo rurale, dove prevalevano relazioni di tipo familiare e anche i prevosti erano di casa, ossia interloquivano quotidianamente con gli abitanti del borgo. Il mio vecchio parroco, ad esempio, tutte le mattine usciva di casa e faceva il giro tra le case del paese, mentre le massaie erano impegnate nell’esecuzione nei vari lavori domestici. Egli avvicinava le persone sui posti di lavoro, scambiava con loro due parole e aveva la battuta sempre pronta. Così si consumava la vita in un ambiente contadino, dove la religione era vissuta e praticata in forme semplici e sincere. La domenica era il giorno dell’incontro tra le persone, soprattutto per i capifamiglia: all’uscita di chiesa, questi, con la giacca sulle spalle, si ritrovavano sul sagrato o in piazza per conversare e scambiarsi pareri ed esperienze. Il papà amava questi momenti. Gli uomini si raccontavano la loro vita e facevano la passeggiata in campagna, osservando i terreni e le colture, commentando il lavoro agricolo e affrontando insieme le questioni connesse alla coltivazione dei fondi. La passeggiata domenicale, dopo la messa, nei campi, era un momento importante, che solitamente faceva tappa all’osteria, per un bicchiere di vino o una partita a carte. Gli uomini difficilmente uscivano dal paese e anche la festa si consumava entro l’ambito delle relazioni interparentali. Nel mio paese la festa più importante era quella di San Giuseppe. Una vera e propria sagra ricca di bancarelle: già la settimana precedente, sul selciato, in prossimità della chiesetta dedicata a San Giuseppe, venivano segnati con il gesso i posteggi riservati ai vari commercianti che nel grande giorno, reso ancora più attraente dalle giostre, avrebbero offerto filati, caramelle, dolciumi. La sera della festa, la mia famiglia, per tradizione si recava a far visita agli zii. Si passava davanti a tutte quelle bancherelle profumate di dolci in processione: la mamma davanti, noi figli dietro, il papà a chiudere la coda. Passavamo le mani in tasca mangiando con gli occhi tutto quel ben di Dio e deglutendo tanta saliva… era la festa degli occhi e di tanti “peccati” di gola soffocati. Natale e Pasqua erano le altre due feste solenni della famiglia. Di contro non abbiamo mai festeggiato o ricordato compleanni e onomastici e, ancora oggi, non chiedetemi quando è nato mio padre o mia madre o qualcuno dei miei fratelli. Per tutti i bambini passava però Santa Lucia: fingevamo di dormire quando, la notte, sentivamo avvicinarsi i passi del papà, che nei nostri scarponi avrebbe inserito due mandarini, tre galetìne e qualche caramella di zucchero. Gli scarponi si indossavano soprattutto l’inverno e, per ben conservarli, il papà, al termine della cattiva stagione, li cospargeva e sfregava sempre con una buona quantità di sónza, per mantenere il cuoio morbido e ben nutrito.
No, no! Vai in Belgio, non a Napoli!…
Sono entrato in Seminario in prima media, o meglio l’anno precedente, per sostenere gli esami di ammissione. Un anno di scuola “preparatoria” a Clusone. Allora, per la verità, dopo le elementari per i contadini più fortunati non c’erano le scuole medie, bensì l’avviamento professionale. Superato quell’esame, è partita la mia avventura nel Seminario di Clusone. Quindi, a Bergamo ho superato prima il ginnasio, poi il liceo, infine la Teologia e nel Sessantacinque, per la precisione il 28 giugno, sono stato finalmente ordinato prete. Stavano allora ultimando la costruzione del nuovo Seminario diocesano. Durante il mio percorso religioso sono sempre stato assistito dalla mia famiglia: genitori, fratelli e sorelle insieme, ai quali rimarrò sempre grato. Il fratello più giovane voleva pure studiare, ma il papà non ha potuto assecondare questa sua inclinazione, perché la nostra famiglia non era in grado di sostenere i costi per la scuola di due figli. Il collegio in Seminario costava e il papà, una volta al mese, veniva a farmi visita a Clusone: in bicicletta raggiungeva Verdello, dove prendeva il treno per Bergamo, per poi proseguire sulla ferrovia sino a Clusone. Pure mio fratello, mentre frequentava la scuola edile di Seriate, la domenica saliva sino a Clusone in bicicletta a ritirare la biancheria da lavare. Ho incominciato a fare il prete a Capriate, quale curato dell’oratorio. A fine luglio ho raggiunto in Vespa quella destinazione, a dieci chilometri circa dal mio paese, dove sono rimasto sei anni, fino al Settantuno, quando Monsignor Baronchelli, il Vicario generale, un giorno mi convocò in Curia per informarmi che forse era giunto il momento di prendere una parrocchia più grossa e impegnativa: – Ti proponiamo di fare il curato nella parrocchia delle Grazie a Bergamo, o a Curno, oppure a Seriate, Spirano o Redona. Prenditi tre settimane per riflettere, poi ci farai sapere. Il parroco di Capriate mi consigliò la parrocchia delle Grazie, in città. – No, sono figlio di contadini e voglio rimanere in campagna… Quella della città è gente troppo altolocata e non fa per me… – gli avevo risposto. Non ci pensai più di tanto, perché in quel periodo ero impegnato nel Grande Gioco (così si chiamava allora il Cre) con i ragazzi. Fu lo stesso Vicario generale a sollecitare, con un’ulteriore telefonata, la mia scelta. In realtà non sapevo dove andare e, proprio il giorno stesso che avevo programmato di recarmi in Curia per dichiarare la mia disponibilità, ricevetti la visita dei curati di Redona, sollecitati da Don Attilio Arachidi. Così feci, la Curia approvò quella mia scelta e a Redona rimasi nei quattro anni successivi, sempre quale curato, fino al Settantacinque. Fu in quel contesto di relazioni che maturò la scelta di andare con gli emigranti. Un mio compagno di scuola, Don Luigi Salvi, originario di Almenno, proprio in quel periodo prestava servizio in Belgio, assieme a Don Vittorio Consonni (attualmente in Costa d’Avorio) e a quattro suore dell’ordine delle Poverelle. Un giorno era venuto a trovarmi e mi aveva chiesto: – Non ti piacerebbe fare un’esperienza all’estero, in Belgio, con i nostri emigranti? Io devo andare in Svizzera e rimane un posto vuoto lassù. Pensavo a te… – Perché no?… – avevo risposto. Ho informato subito il Vescovo, Monsignor Gaddi, il quale accolse tale disponibilità, proponendomi però, anziché il Belgio, la missione di Yverdon, in Svizzera, perché a Seraing era già stato destinato Don Romeo Todeschini. La mia rispettosa insistenza, motivata dall’esigenza di fare vita comunitaria con un mio compagno, Don Vittorio Consonni, fece sì che il Vescovo accolse la proposta, dando così inizio alla mia esperienza missionaria in emigrazione. Sono partito il mese di settembre 1975 assieme a Don Fermo Rota, in automobile, con due valigie. Ho informato i genitori solo il giorno prima della partenza. Il papà, di fronte a una notizia così importante quanto improvvisa, è rimasto in silenzio, come ammutolito. La sorpresa era tanta. La mamma mi aveva detto che ero diventato matto. – Guarda: da qui al Belgio la distanza è come quella da qui a Napoli!… Preferisci che vada a Napoli o che vada in Belgio?… – ho proposto alla mamma, facendo leva sui suoi sentimenti … – No, no! Vai in Belgio, non a Napoli!… – mi ha risposto, per non ostacolare una scelta ormai effettuata. In Belgio te ‘ndé sö a fà ol lóch!… Una scelta dettata dall’entusiasmo, dal desiderio di vivere una dimensione pastorale accanto ai poveri e ai bisognosi. Era l’Anno Santo ed ero rimasto molto deluso, anche scandalizzato nel vedere alla televisione tanta gente, anche personaggi noti della politica e della società, alcuni dei quali travolti da scandali, entrare dalla Porta Santa e uscire per così dire “purificati”. Ero riluttante nel vedere imprenditori e politici oltrepassare la Porta Santa e uscirne purificati. L’indulgenza plenaria della Porta Santa mi aveva molto urtato. – Anziché andare a Roma e oltrepassare la Porta Santa, vado al Nord, oltrepasso la frontiera e mi dirigo da tutt’altra parte, per mettermi veramente al servizio della povera gente!… – avevo detto. Una reazione sociale, ma nel contempo anche una scelta religiosa, consapevole del fatto che l’Anno Santo deve condurre le persone alla santificazione attraverso un percorso, un cammino, una conversione reale, un cambiamento del proprio stile di vita. Oltrepassare la Porta Santa è solo un richiamo simbolico, cui deve corrispondere un’istanza di santificazione reale. La mia scelta di andare con gli emigranti è stata un piccolo atto di reazione, se volete anche di ribellione, nei confronti di un certo modo di essere e di fare Chiesa. Una scelta dalla parte della Chiesa dei poveri, di chi è ramingo. Come vi dicevo poc’anzi, i genitori non mi hanno ostacolato e così pure fratelli e sorelle. Prima di raggiungere la Missione di Seraing, ho frequentato a Roma un breve corso di formazione organizzato dalla Migrantes e riguardante alcuni aspetti sociali e religiosi dell’emigrazione italiana in Europa. In verità avevo accettato di andare a Seraing un po’ alla cieca, fiducioso nella proposta giuntami dal compagno di scuola, senza prima andare a vedere il posto. Tutto sommato mi è sempre piaciuto rischiare un po’. Anch’io ho vissuto le mie sofferenze, ma non le ho mai sbandierate ai quattro venti, anzi le ho trattenute in silenzio. Era una delle lezioni principali acquisite dalla vita di sacrifici, senza mai un attimo di ribellione, di mio padre. Non ho mai detto a nessuno quello che ho sofferto. L’esperienza in terra di Missione non è stata tutta rose e fiori, ma gli aspetti positivi hanno prevalso sugli altri. – In Belgio te ‘ndé sö a fà ol lóch!… – mi diceva la mamma. – Ma no, siamo in due sacerdoti!… – Du lóch!… – Poi ci sono anche quattro suore… – avevo replicato. – Ah, sì? Ci sono anche quattro suore? Alura a só tranquìla, perchè i suòre i sa làssa mancà negót!… – fu la conclusione della mamma. Effettivamente in quell’ambiente d’Oltralpe mi sono trovato bene. Non avevo un’idea di missione-tipo e quindi non mi ero prefigurato nessun tipo di realtà. L’unica esperienza di cui ero portatore rimaneva connessa alla pastorale con i ragazzi e i giovani nelle nostre parrocchie bergamasche. Non sono partito con un progetto in tasca, ma con l’intenzione di conoscere quella realtà, per meglio calibrare e individuare le possibili azioni. Ero interessato soprattutto ad avvicinare i nostri emigranti, per comprendere le loro scelte di vita e rendermi di conseguenza disponibile nella loro società. Avevo avuto alcune informazioni circa la vita a Seraing, ma non erano sufficienti per definire un quadro di intervento. La motivazione di fondo consisteva in un’incondizionata disponibilità al servizio. Sapevo che l’emigrazione era un fenomeno complesso e che lassù c’erano migliaia di Italiani, provenienti da tutte le regioni: dal Friuli alla Calabria, dal Nord al Sud dello Stivale. Un crogiuolo di esperienze e di provenienze. Prima di partire ho letto alcuni libri e, quando ho scoperto che il novantotto per cento della popolazione belga è cattolica, mi sono chiesto: – Ma cosa ci vado a fare io lassù?… Compresi ben presto quella nuova situazione, giacché, come dice il proverbio, non è tutto oro ciò che luccica. Infatti, il primo giorno che mi recai a celebrare la messa ad Ougrée, una cittadina a pochi chilometri da Seranig, in un piccolo edificio provvisorio di legno che fungeva da chiesa, parteciparono alla funzione una donna anziana, una signora di mezza età, una bambina e altre due o tre persone! All’improvviso mi erano crollate le braccia, nonostante fossi giunto sul posto due ore prima, per preparare un ambiente accogliente. Lì ho capito che le percentuali sono una cosa, la realtà un’altra.
Non eravamo abituati alla vita comunitaria
Nel Settantacinque, dunque, mi sono recato a Seraing in automobile assieme a Don Fermo Rota, dove ho raggiunto il mio amico e compagno Don Vittorio Consonni. Don Fermo aveva vissuto parecchi anni nel Limburgo (a Waterschei e a Winterslag) e si occupava ancora di Missioni nel contesto dell’emigrazione italiana in Europa. Siamo giunti a destinazione la sera tardi, perché Don Fermo si era voluto fermare a Colonia per visitare la Cattedrale. Sono rimasto subito colpito dal Belgio perché le sue autostrade allora erano tutte illuminate di notte. Pareva un Paese molto luminoso. Il giorno dopo, invece, ero stato negativamente impressionato dalla cappa di grigiore che incombeva sulla città. E poi le strade segnate dalla polvere di carbone che rivestiva ogni superficie, i terrill… Grazie alle suore, che provvedevano ai nostri pasti, e a Don Vittorio, che mi ha introdotto nelle famiglie e tra gli immigrati, mi sono gradualmente inserito in quella realtà. La Missione provvedeva allo stipendio delle suore e noi sacerdoti ci tassavamo per acquistare il cibo, che poi ci avrebbero cucinato. La “cassa” era unica, alimentata dai nostri proventi, e da essa attingevamo per far fronte all’acquisto delle derrate alimentari. Con Don Vittorio Consonni si è subito instaurato un bel rapporto, ma per meglio operare abbiamo distinto i diversi campi di intervento nei vari servizi. Ciascuno di noi aveva la sua “Parrocchia”: Don Vittorio agiva quale responsabile della Missione e della pastorale a Seraing mentre io, vivendo nella Missione, collaboravo alle varie attività con un impegno pastorale rivolto soprattutto a Ougrée. Don Consonni, però, dopo sette anni di vita a Seraing è partito per la Costa d’Avorio e io ho preso il suo posto come responsabile della Missione. Nel Settantacinque l’emigrazione bergamasca e italiana all’estero era ancora evidente, anche se il flusso stagionale si era pressoché interrotto. All’estero si erano formate grosse comunità di connazionali. A differenza della Svizzera, in Belgio queste presenze si erano concentrate attorno alle principali aree industriali e carbonifere del paese. A Seraing c’era la grande fabbrica Cockerill, successivamente venduta ai cinesi, la cristalleria Val Saint Lambert, l’acciaieria Val Fille e altre importanti presenze dell’industria pesante. Le attese di ordine sociale erano presenti con quelle più di natura religiosa e pastorale. Le istanze sociali prevalenti hanno costituito la base sulla quale innestare un messaggio religioso. La Missione Cattolica Italiana era comunemente chiamata “Casa Nostra” anche per questo motivo. Il nome sottintendeva da un lato il suo ruolo di luogo aperto e accogliente rivolto a tutte le persone, in particolare agli Italiani, per farli sentire a “casa propria”; dall’altro anticipava l’opportunità per la Chiesa di un’apertura e un servizio ai connazionali nelle questioni sindacali a difesa dei diritti dei lavoratori e delle persone. Infatti, in quella Missione hanno lavorato nel passato sacerdoti molto combattivi sul piano delle rivendicazioni sociali, come Don Monaca. Le Acli, inoltre, erano molto forti e veramente rappresentative. Le Missioni Cattoliche Italiane erano chiamate a svolgere funzioni e compiti di natura religiosa e noi sacerdoti non potevamo assumere di conseguenza comportamenti eccessivamente esposti sul piano politico e a difesa del mondo del lavoro. “Casa Nostra” ha voluto essere innanzitutto un luogo di incontro dei vari gruppi, dalle Acli ai vari patronati, attraverso il quale la Chiesa forniva opportunità di aggregazione e di formazione. Abbiamo svolto dapprima una funzione di accoglienza. Io, poi, provenivo da un ambito agricolo della pianura bergamasca e improvvisamente mi sono trovato a relazionarmi con un contesto fortemente industrializzato, di tipo operaista, quando Seraing era ancora un centro metallurgico importante per tutta l’area europea. La fatica, però, è sempre fatica, tanto nei campi quanto in fabbrica, e io avevo deciso di stare dalla parte dei lavoratori, della gente semplice e povera. A Seraing mi sono buttato nella mischia, collaborando con le famiglie, i gruppi e le associazioni. Nel cortile della Missione di Seraing è stato posto, come monumento all’emigrante, un carrello di minatore pieno di carbone su un pezzo di rotaia, con infisso il ritratto di Don Piumatti, questo grande missionario piemontese che ha dato tanto a quella Missione, quando la città era ancora un’importante realtà mineraria.
Un luogo d’incontro di stili, culture, mentalità e forme religiose diverse
Nel primo periodo non ho avuto ripensamenti sostanziali circa la mia permanenza lassù, anche se qualche interrogativo me lo sono posto, ma mai nel senso del ritorno. Ho vissuto però lo sradicamento, la solitudine, la dimensione umana del trapiantato culturale. In certe circostanze mi pesava il dover costruire rapporti diversi per comunità distinte. Mentre nelle parrocchie della nostra Diocesi vivevo la vita da sacerdote con i ragazzi il pomeriggio e i giovani la sera, lassù ho incontrato almeno due società diverse con cui rapportarmi: quella dei nostri emigranti e l’altra indigena, riferita alla chiesa locale. Due realtà distinte che richiedevano approcci diversi. Inoltre, bisognava accostarsi con prudenza ai diversi gruppi di Italiani, con provenienze distinte e forti connotazioni regionali; i gruppi del Sud e le associazioni del Nord. A Seraing si incontravano stili, culture, mentalità e forme religiose articolate, in una società molto eterogenea di Italiani provenienti da tutte le regioni d’Italia. Non ho trovato lassù un ambiente tutto bergamasco o tutto contadino, ma una molteplicità di situazioni specifiche. Per affrontare quel contesto, la formazione in Seminario prima, quella da prete poi, non mi è servita più di tanto, e non solo sul piano generale. A Seraing mi sono dovuto confrontare con sensibilità diverse anche sotto il profilo della pastorale e nella concezione dei Sacramenti. In parrocchia, ad esempio, la vita religiosa di una persona seguiva una scansione sacramentale abbastanza precisa: a sette anni la Prima Confessione, a nove anni la Prima Comunione, a tredici anni la Cresima, … etc. Lassù, invece, alcuni gruppi regionali, soprattutto del Sud Italia, tendevano ad accorpare l’amministrazione dei Sacramenti a più figli insieme: ossia il primo aspetta il secondo e il secondo il terzo e così via. Per molte famiglie, infatti, l’evento sacramentale costituiva anche un’occasione per celebrare feste familiari di una certa importanza. Incontravo ragazzi anche di oltre vent’anni sì battezzati, ma non ancora cresimati. Per avvicinarmi meglio alle diverse abitudini regionali, cogliendone applicazioni e modalità, l’estate andavo a visitare le aree italiane da cui provenivano i miei parrocchiani di Seraing, avvicinando così i parroci e i vescovi delle singole Diocesi. Dicevo loro: – Se viene una coppia dal Belgio o dalla Svizzera a chiedere di sposarsi in chiesa e gli sposi hanno frequentato il corso prematrimoniale alla Missione, ma non hanno la Cresima, non buttategliela addosso così, a qualche modo. Sposateli pure, ma richiedete da loro un impegno perché, tornati nella Missione, seguano con calma e profitto un corso specifico di preparazione. La Missione di Seraing era ben strutturata per una serie di servizi offerti ai nostri connazionali e, più in generale, alla popolazione: dal bar, dove gli Italiani la sera, dopo il lavoro, e il fine settimana, si ritrovavano, alla sala per riunioni e feste a favore di gruppi e associazioni. Di frequente si organizzavano feste interregionali, dove i vari gruppi mettevano in mostra, nei rispettivi stands, le loro eccellenze alimentari, culturali, storiche e turistiche. Inoltre, c’era la scuola materna per i figli dei cittadini italiani, dove prestavano servizio due delle nostre suore. Avevamo messo a disposizione due grandi aule dove tenere i corsi di lingua e cultura italiana, sostenuti dal Consolato Italiano di Liegi. C’era anche un gioco di bocce ed era stata data voce a una radio per la trasmissione delle messe e la divulgazione di qualche breve servizio informativo utile alla collettività. Casa Nostra era un centro che pullulava di iniziative. Noi missionari e religiose, poi, ci recavamo negli ospedali a fare visita ai connazionali ammalati, o agli anziani nelle rispettive abitazioni, mentre le suore passavano di casa in casa a distribuire Famiglia Cristiana. Era questo il nostro apostolato. Visitavamo le famiglie, facevamo la catechesi, celebravamo i Sacramenti (Cresime, Comunioni, Matrimoni, funerali) nella chiesa interna della Missione, la quale era costituita come una parrocchia vera e propria e come tale veniva riconosciuta. Svolgevamo anche un servizio di prima accoglienza nei confronti dei nuovi immigrati che richiedevano indicazioni e interventi di prima necessità, per trovare una sistemazione e un lavoro. Abbiamo aiutato le famiglie dei connazionali che venivano in Belgio per essere trapiantati di fegato (penso a Lovanio). Davamo loro ospitalità e molte volte li accompagnavamo in automobile sino all’ospedale per fare visita ai loro cari ospedalizzati.
Rimanevamo sulla difensiva e chiedevamo sempre permesso
Non ho sofferto particolari difficoltà di ambientamento. Le suore italiane, bergamasche e bresciane, cucinavano i nostri cibi. In principio ho subìto alcune difficoltà con la lingua. Sono partito convinto di poter comunicare con facilità, avendo studiato francese nelle medie, ma ho capito che parlare una lingua non significa tradurre ed esprimere le singole parole separate fra loro, ma saper affrontare un discorso, sostenere una conversazione. La sera, quando ero libero, mi mettevo davanti al televisore e seguivo i dibattiti, per entrare nella dimensione della lingua parlata, quella che a me serviva per relazionarmi con le persone. Poi – non va dimenticato – noi Italiani abbiamo anche il volto, le mani e i piedi per farci capire. La prima predica in francese l’ho fatta sulla Santissima Trinità. Immaginatevi! Una doppia difficoltà: l’argomento dottrinale molto difficile e la lingua balbettata a malapena. Il sabato sera celebravo la messa in italiano alla Missione e nella chiesa di Ougrée. La domenica mattina, invece, concelebravo di solito con il prete locale un po’ in francese e un po’ in italiano. In Svizzera, invece, qualche anno appresso, celebravo una sola messa la settimana in italiano, mentre tutte le altre in lingua francese. La nostra Messa in lingua francese, con l’accento tipico dell’emigrante Rital (si richiama la canzone di Claude Barzotti), ma anche con lo stile italiano, era uno strumento utile per trasmettere soprattutto una modalità più viva alla celebrazione e all’animazione della messa. Non una cerimonia fredda e impersonale, ma un evento partecipato, caloroso, cordiale. A Seraing non abbiamo intrattenuto particolari rapporti con le autorità amministrative del luogo. La Missione era bene integrata nel contesto della città e nelle principali occasioni di ritrovo interveniva anche il Sindaco. Casa Nostra era un’istituzione nota che i Belgi chiamavano La Casà. I Belgi si mischiavano con i nostri connazionali. Anche con la Chiesa locale la nostra Missione non ha registrato particolari problemi o contrasti. Ciò è dipeso soprattutto dal buon senso delle persone e dai preti che si sono succeduti negli anni e incontrati di volta in volta per le singole iniziative. Noi andavamo a celebrare matrimoni e funerali in diverse parrocchie del circondario: in alcune zone abbiamo incontrato grandi aperture dai sacerdoti locali, con i quali era facile condividere una pastorale; in altri ambienti, invece, i sacerdoti dei villaggi rimanevano più distanti e, pur mettendo a disposizione la chiesa o la sala, non mischiavano le carte e quindi mantenevano un distacco formale. Noi, missionari italiani, del resto, rimanevamo sulla difensiva e chiedevamo sempre permesso, dovunque si andasse. C’era la consapevolezza di trovarsi in casa d’altri e quindi non abbiamo mai avanzato pretese. Quando sono giunto lassù, nel 1975, il fenomeno migratorio si stava chiudendo e chi doveva rientrare in Italia era già rientrato o stava rincasando, mentre gli altri si erano stabiliti in modo definitivo in quella realtà. La parola “integrazione” a me non piace molto perché trovo che è ancora oggi una realtà auspicata ma prematura, non realizzata. Preferisco parlare di convivenza o di condivisione. È vero, molti italiani si sono bene inseriti nella realtà belga, ma non solo per il fatto che hanno imparato a consumare i prodotti del posto, o perché bevono la birra, o parlano bene il francese, o appartengono ormai al contesto sociale ed economico del Paese ospitante. Il concetto di inserimento va molto più in profondità. Non si può negare che i nostri connazionali oggi si possono dire molto bene inseriti in Belgio, perché l’emigrazione italiana è stata l’élite dell’emigrazione, ma non so fino a che punto si possa parlare di vera e propria integrazione.
Botta e risposta
Vorrei richiamare, a proposito del rapporto Belgi-Italiani, una forma di “sfottò” attraverso due canzoni che spesso, nei luoghi di ritrovo o nelle circostanze delle feste popolari, venivano canticchiate dai due gruppi in maniera scherzosa, ma sempre con un pizzico di malizia. Mi riferisco, per i Belgi, alla canzone di A. Capitaine e G. Delfosse A la moutouelle, que la vie est belle dell’anno 1973. Tradotta liberamente: “Quant’è bella la vita a spese della mutua!”, scritta nel francese maccheronico parlato dagli Italiani. Era un dare agli Italiani l’appellativo di lazzaroni e di scrocconi, un modo scherzoso di canzonare gli Italiani, certo meno pesante di quello usato negli anni Cinquanta come sale macaronì cioè “sporco maccarone” oppure, in dialetto vallone, magneu blancs cioè “mangiatore di bianchi”, titolo che i Belgi davano ai neri delle loro colonie in Africa.
A la moutouelle, que la vie est belle!
A la moutouelle Que la vie est belle ! A la moutoutou, moutoutou, moutouelle A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutoutou, la moutouelle
Yé souis parti de ma belle Italie Yé travailler seulement deux ans Yé souis tombé malade, c’est magnifique Yé souis toujours en traitement
A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutouelle A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutoutou, la moutouelle
La moutouelle, c’est une bonne affaire Missionari bergamaschi in Belgio. On est casé, on devient fonctionnaire Ma quand arrive l’âge de la pension Je vends des glaces, des spaghettis, des marrons
A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutouelle A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutoutou, la moutouelle Alors, mon garçon, on est prêt à reprendre le travail? Ma peut être bien que oui, ma peut être bien que non, docteur Yé souffre
Yé souis payé, yé m’casse pas la nénette Dans mon pays, il n’en est pas question Ce n’est pas que yé souis un malhonnête Ma yé profite de la situation
A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutouelle A la moutouelle Que la vie est belle! A la moutoutou, moutoutou, moutoutou, la moutouelle
La risposta, per gli Italiani, è di Claude Barzotti, con la canzone Le Rital, appellativo un po’ spregiativo di chiamare l’immigrato italiano. Nella canzone, scritta nel 1981 in perfetto francese, l’autore mette in evidenza la differenza tra lui, Italiano del Sud, e i Belgi. Riconosce di essere “straniero”, ma… di avere e di portare in Belgio alcune bontà culinarie, come gli spaghetti e il minestrone, e le bellezze delle città d’Italia. Come refrain, la nostalgia riassunta nella canzone “Arrivederci Roma”.
Le Rital
A l’école quand j’étais petit, je n’avais pas beaucoup d’amis, j’aurais voulu m’appeller Dupont… Avoir les yeux un peu clairs, je rêvais d’être un enfant blond, j’en voulais un peu à mon père… C’est vrai je suis un étranger, on me l’a assez répété, j’ai les cheveux couleur corbeau… Je viens du fond de l’Italie, et j’ai l’accent de mon pays, ‘’italien jusque dans la peau’’…
refrain: je suis rital et je le reste, et dans le verbe et dans le geste vos saisons sont devenues miennes mais ma musique est italienne je suis rital dans mes colères, dans mes douceurs et mes prières j’ai la mémoire de mon espèce, je suis rital et je le reste… arrivederci Roma
J’aime les amours de vérone, les spaghettis, le minestrone, et les filles de Napoli… Turin, Rome et ses typhosis, et la joconde de Vinci, qui se trouve hélas à Paris… Mes yeux délavés par les pluies, de vos automnes et de vos nuits, et par vos brumes silencieuses, J’avais bien l’humeur voyageuse, mais de raccourcis en détour, j’ai toujours fais l’aller retour…
refrain: Je suis rital…
la la la …
C’est vrai je suis un étranger, on me l’a assez répété, j’ai les cheveux couleur corbeau… mon nom à moi c’est Barzotti, et j’ai l’accent de mon pays, italien jusque dans la peau…
la la la …
Gli ammalati della mina! La silicosi! Quanti drammi umani!
I nostri emigranti in Belgio hanno coltivato negli anni una sorta di astio nei confronti del governo italiano, a causa dell’ormai noto scambio sul carbone. I Belgi hanno comperato le braccia italiane, ma si sono ritrovati delle persone in casa! All’economia locale servivano minatori e operai, in funzione delle esigenze del lavoro, per lo sfruttamento e la trasformazione delle risorse energetiche, ma questo fatto ha condizionato la vita di migliaia di persone, ciascuna delle quali è stata portatrice di istanze sociali assai profonde. Non bisogna dimenticare che l’emigrazione in Belgio ha significato, ad esempio, i falanstère, ossia quegli hangar o caserme in legno o di latta già utilizzati prima dai Tedeschi occupanti, poi dagli Alleati, dentro i quali, finita la guerra, tenevano rinchiusi i prigionieri tedeschi. Alloggi provvisori e di fortuna occupati, poi, per molti anni ancora, dai nostri emigranti. Al piano terra c’erano stufe a carbone dove ciascuno cucinava il proprio cibo, lavava i panni, metteva ad asciugare i vestiti; al piano superiore stavano allineate le singole stanze. Alloggi miserevoli. Nel contempo in Italia si era diffusa una propaganda subdola, con proiezione di filmati che mostravano i minatori mentre scendevano in miniera cantando e tornavano alla luce sporchi ma felici. E poi il divertimento… L’emigrante che ho conosciuto, durante la mia permanenza lassù, non era più alloggiato nei falanstère, ma i figli di quelle persone e gli ex minatori ancora portatori degli effetti drammatici della prima fase dolorosa della nostra emigrazione abitavano in alloggi confortevoli. Sono rimasto tristemente colpito dai racconti di molti ex minatori! Quanta tristezza e rabbia! Gli ammalati della mina! La silicosi! Quanti drammi umani! Rivedo ancora oggi molti di essi con una grande bombola di ossigeno e un lungo tubicino che consentiva loro di muoversi in casa. Lo Stato forniva loro il carbone, perché dovevano mantenere in casa almeno venticinque gradi di temperatura. Il calore favoriva la dilatazione dei polmoni. Ho conosciuto diverse di queste situazioni. Gli ex minatori comunicavano fra loro. Non uscivano di casa, ma si tenevano monitorati sul loro stato di salute, scambiandosi al telefono i vari sintomi. Andavo a trovarli regolarmente. Vi racconto questa esperienza. Avevo fatto visita a uno di essi, che abitava poco lontano dalla Missione: – Come stai?… – Tiriamo avanti… Durante la nostra tranquilla conversazione, il mio sguardo era stato catturato dalla sua raccolta di dischi di Celentano. Gli avevo chiesto: – Ti fa niente ad imprestarmeli? Li porto a casa e li registro. Poi te li riporto la settimana prossima. – No, no, li puoi tenere. – No, te li restituisco. Li registro su nastro e poi te li restituisco. – Ti dico te li puoi tenere, perché a me, ormai, non servono più!… – Perché dici così? Non ti interessano più? – No, mi piacciono eccome, ma tanto a me non servono più, perché la settimana prossima, come oggi, io sarò già morto… – Come fai a dire che sarai già morto?… – Perché i sintomi che provo io oggi, li ha avuti anche quel mio amico, che dopo cinque giorni è morto. Così è successo anche a quell’altro mio compagno… Così è proprio avvenuto. Quel minatore dopo sei giorni è mancato per sempre. Gli ex minatori avevano messo in atto un’efficace rete telefonica con la quale si tenevano in contatto, si spiegavano i sintomi, monitoravano insieme lo stato di avanzamento della grave malattia. Una volta, assieme ad altri missionari italiani, nella seconda metà degli anni Settanta siamo andati a visitare una miniera ancora attiva nel Limburgo. Prima di farci entrare, i dirigenti dell’impianto ci hanno radunati in una sala per spiegarci che la miniera è sicura e che, se casualmente capitano incidenti gravi, è sempre per motivi imputabili al comportamento umano: significa che qualcuno ha sbagliato e che l’operaio e il minatore non hanno fatto il loro dovere. Un classico atteggiamento pilatesco. Una predica per dirci che i minatori non sono sempre prudenti e che gli ammalati di silicosi devono fare autocritica perché non hanno messo la maschera o hanno bevuto poco latte. Siamo scesi in profondità e, là sotto, in quella galleria, anche abbastanza alta e bene illuminata, pure arieggiata attraverso un circuito di comunicazione con l’esterno (l’aria pulita e fredda entrava per aspirazione da una torre e usciva calda e sporca dall’altra), lavoravano ancora alcune centinaia di minatori. Il carbone ormai non veniva tagliato più a mano, bensì da una circolare elettrica. Il minatore seguiva la grossa macchina e asportava i pezzi rimasti instabili sulle pareti. La vena era alta poco più di un metro e sempre il minatore al seguito doveva anche palificare la galleria e mettere in sicurezza i tratti instabili. Là sotto non si percepisce di trovarsi a oltre mille metri di profondità. Perforatrici, carrelli che vanno e vengono, ascensori, … sono i rumori della miniera. A Seraing le miniere di carbone erano già chiuse durante la mia permanenza lassù e i connazionali con i quali mi sono relazionato erano ex minatori, oppure operai metallurgici, la maggior parte dei quali impegnati alla Cockerill. Poche donne lavoravano nelle fabbriche dell’industria pesante.
La cantina di Rita
Gradualmente, negli anni successivi, il rapporto tra i nostri connazionali e la Missione si è allentato in un rapporto direttamente proporzionale con il grado di inserimento nel nuovo Paese. Quando un emigrante fa la scelta di rimanere all’estero, si adatta allo stile di vita del posto e, di conseguenza, prende le distanze da altri modelli aggregativi, soprattutto da quelli più orientati verso il passato. Gli emigranti italiani all’estero non sono mai stati molto praticanti e la Missione era soprattutto il luogo dove essi venivano per affrontare i loro problemi. Un punto di riferimento essenziale, un luogo dove vivevano alcune persone sulle quali la gente sapeva di poter contare. La chiamavano “Casa”, non Missione, mettendo in evidenza soprattutto l’aspetto sociale, anche di garanzia per un luogo “amico”, dove c’è ascolto e protezione nel momento del bisogno. Erano soprattutto le donne a partecipare alla vita e alle opportunità offerte dalla Missione. Ho rilevato anche alcuni aspetti un po’ negativi nel corso della mia esperienza in emigrazione. Alcuni connazionali hanno scelto di emigrare con l’intento di andare a divertirsi e in cerca di una vita un po’ libertina: non si sono sposati e hanno vissuto alla giornata, un po’ all’avventura. Tanto guadagnavano, tanto spendevano. Persone fuori da ogni controllo. La cantina di Rita, una signora di Boltiere, ospitava una decina di Italiani soli, operai e minatori rimasti celibi per il semplice fatto che non si sono mai decisi a formarsi una loro vita e a costruirsi una famiglia. Trovavano più comodo vivere alla giornata: del lavoro si occupava il padrone in fabbrica o in miniera, mentre la signora Rita provvedeva a vitto e alloggio. Volevano divertirsi e quindi hanno trascorso una vita da alloggiati in quella cantina, dove pagavano da mangiare e da dormire. Altre persone, invece, proprio negli anni Settanta del secolo scorso, sono emigrate anche per motivi politici, ossia per evitare ritorsioni o sequestri da parte di frange pericolose dell’estrema sinistra. L’Italia era considerata un paese instabile, poco sicuro e quindi alcuni hanno preferito andare ad abitare in Belgio, che allora risultava essere un Paese sufficientemente tranquillo. Un altro aspetto negativo riguarda il welfare, giacché il sistema di sicurezza sociale belga indirizzava le persone a forme assistenziali “troppo” avanzate. Ad esempio, lassù, le famiglie numerose con più di quattro figli non pagavano le tasse. Queste opportunità, all’apparenza ottime sul piano delle conquiste sociali, di fatto hanno indotto molte persone ad “accomodarsi” e ad affidarsi quasi esclusivamente al sistema assistenziale locale. Come pure il regime di tutela contro gli infortuni aveva creato forme obbrobriose di utilizzo del proprio corpo, al punto che taluni si provocavano menomazioni varie in vista di ottenere risarcimenti economici. C’era chi, ad esempio, si tagliava di proposito alcune dita di una mano. Le dita, a seconda che fossero della mano sinistra o destra, avevano valori diversi. Ho conosciuto personalmente alcuni di questi casi. Quando uno non aveva altre possibilità, ricorreva a questo espediente. Con l’idrogeno si raffreddava il dito e quindi lo spezzava, in seguito si recava all’ospedale, dichiarando che si era fatto male sul lavoro. Una persona che frequentava la nostra Missione, a Seraing, quando giocava a carte, scherzava mostrando il moccolo del suo dito e diceva: – Che mi mantiene è questo!… Per quanto concerne l’aspetto morale, ci sarebbero da dire molte altre cose. I nostri uomini, emigrando da soli, erano esposti a tante provocazioni. Le donne belghe sono tutte allampanate, pallide, magre e, vedendo i nostri uomini giovani, robusti e abbronzati, impazzivano! Alcuni giovanotti, poi, l’estate si buttavano nel fiume che attraversava la città, la Meuse, attirando l’attenzione dei passanti stupefatti! Evidentemente il quadro non era poi così negativo come potrebbe sembrare da questa mia breve descrizione, perché la maggior parte dei nostri connazionali sono stati veramente bravi e hanno mantenuto una condotta irreprensibile, conducendo una vita tra fabbrica, miniera e famiglia. Mi hanno raccontato di persone che, prima del mio arrivo, a Seraing si sono sposate conoscendosi solo tramite una fotografia.
Il valore dell’apostolato inteso come servizio
A Seraing ho vissuto sette anni con Don Consonni, mentre gli ultimi due anni di permanenza lassù sono rimasto solo ad amministrare quella grossa realtà. Diverse volte ho ricevuto la visita della polizia locale, perché la gente del vicinato denunciava l’inquinamento provocato dalle nostre caldaie per il riscaldamento dell’asilo e della chiesa. Le donne del quartiere, in modo particolare, lamentavano il fatto che la sera ritiravano le lenzuola stese la mattina stessa tutte sporche, coperte da una coltre di materia grigia. Per risolvere l’inconveniente abbiamo dovuto rifare tutto l’impianto di riscaldamento. Sono stati anni vissuti molto intensamente, con grandi aperture sul mondo, ponendo l’attenzione soprattutto sulla dimensione umana delle singole persone. Rimasi colpito, ad esempio, quando, andando a trovare gli ammalati negli ospedali, scoprii che il giornale più diffuso era Cronaca Vera, una rivista settimanale scandalistica. Per quanto concerne i servizi religiosi, la mia vita a Seraing si concentrava attorno all’attività pastorale: catechesi, messe feriali e festive, preparazione e amministrazione dei Sacramenti, … insomma mi occupavo di tutti i servizi tipici della struttura di una parrocchia italiana. Oltre che nella nostra chiesa, poi, noi celebravamo la messa e amministravamo i Sacramenti anche nelle altre parrocchie del circondario. Mentre in Svizzera avevo le chiavi delle chiese da me frequentate, in Belgio chiedevo di volta in volta l’autorizzazione ai diversi parroci. Inoltre, si collaborava con le associazioni italiane presenti sul territorio, le quali, il più delle volte, erano organizzate su base regionale. I vari circoli (di Bergamaschi, Friulani, Veneti, Siciliani…) cercavano di costruire relazioni di vicinanza con le regioni italiane di provenienza dei diversi gruppi. Era un modo anche quello per stare vicino ai nostri connazionali e trasmettere loro valori, sapori, immagini della loro terra. Noi missionari partecipavamo alla vita associativa di tali gruppi, alle loro iniziative e riunioni. Oltre a coordinare l’attività del Consiglio pastorale, seguivamo le famiglie dei bambini che venivano alla nostra scuola materna, tenevamo i contatti con i giovani che partecipavano ai corsi di cultura italiana, … Prevaleva il valore dell’apostolato inteso come servizio. I giovani partecipavano alle nostre attività, anzi si era formato un gruppetto di ragazzi impegnati anche socialmente con azioni di volontariato sociale. Cercavamo di non imporre una linea pastorale, come avviene nelle nostre parrocchie in Italia, ma di offrire loro alcune tracce di orientamento, per tirài ‘nsèma, cioè fargli far gruppo. Dovevamo insistere in modo particolare con i giovani provenienti dalle regioni meridionali, per i quali l’aspetto esteriore era uno dei tratti fondamentali anche della pratica religiosa. La Missione era continuamente aperta verso l’esterno e le famiglie, le quali pure si rivolgevano al missionario per i Sacramenti, oppure quando si trattava di affrontare problemi o situazioni sociali particolari. Noi missionari, del resto, eravamo sempre disponibili. Per quanto mi riguarda, solitamente rientravo in Italia tre volte l’anno: una settimana a Natale, una a Pasqua e quindici o venti giorni l’estate. Da Seraing prendevo il treno alle due e mezza del pomeriggio e arrivavo a Milano alle quattro del mattino. L’estate, invece, scendevo in automobile ed erano più di mille chilometri. Mantenevo sempre rapporti abbastanza costanti con Bergamo, la mia famiglia e la Diocesi. Vi dico di più: avevo chiesto al Vescovo un aiuto maggiore sul piano della pastorale, per avere a disposizione, ad esempio, bibliografie e programmi operativi, in modo da sapere che testi acquistare per la catechesi. Lassù, in certi momenti, ci sentivamo un po’ abbandonati a noi stessi e, tutto sommato, dovevamo inserirci nella pastorale locale e collaborare con le parrocchie d’Oltralpe. Avendo di fatto ottenuto pochi aiuti dalla Diocesi, abbiamo dovuto costruire un nostro specifico modus operandi. Dall’Italia ogni tanto arrivava qualcuno a farci visita. Un giorno avevo ricevuto la visita di due genitori provenienti da Bergamo con il loro figlio che si drogava. Erano disperati. La mamma mi chiese: – Lei è di Bergamo? – Sì… – Devo chiederle un favore… – Che cosa?… – Ho mio figlio che è così e così… O lei riesce a tenermelo qui e a tirarlo fuori dalla droga, altrimenti lo ammazzo! Ormai ci ha sperperato tutto! Adesso è senza soldi, senza amici, senza salute!… Quei poveri genitori erano venuti apposta sin lassù, lontano da Bergamo. Presi con me quel ragazzo, colpito dal dramma umano dei suoi genitori. Mi rivolsi a un amico bergamasco: – Senti, ho da risolvere questo problema. Ho un caso così e così… Ha bisogno di un lavoro… Fallo lavorare nel tuo atelier!… – Va bene. Domani mattina mandamelo qua da me alle cinque! Quel ragazzo si è messo a lavorare dalla mattina presto sino alla sera tardi. Arrivava a casa stanco e andava a dormire. Era un artigiano pure lui, in Italia, e quindi conosceva il sacrificio del lavoro. Si è fermato sei o sette mesi da me e tutti i mesi mi consegnava i soldi della sua paga, che io gli restituivo gradualmente, per piccole somme, un tanto la settimana, per le sigarette e qualche birra. I suoi genitori sono venuti più volte a ringraziarmi, perché quel ragazzo si è ripreso.
Dove andiamo? Ritorniamo in Italia o rimaniamo qui?
In Belgio ho conosciuto soprattutto connazionali che avevano ormai optato per rimanere definitivamente nel nuovo Paese d’adozione e che, di conseguenza, ormai si erano inseriti abbastanza bene nella società locale. Ma non basta vivere due o tre o quattro decenni in una regione per dirsi cittadino di quel luogo. L’Italiano emigrante rimane sempre un emigrante italiano. L’Italiano che parte per andare all’estero rimane sempre Italiano, anche dopo tanti anni, anzi il più delle volte manifesta un’identità nazionale più forte del connazionale che vive in Italia. Anche dopo alcune generazioni rimane lo stile di vita italiano, come una sorta di Dna culturale. Quando l’emigrante ha come obiettivo il rientro, assume comportamenti conseguenti, mentre quando decide di rimanere per sempre nel nuovo Paese, i suoi atteggiamenti cambiano. Per i connazionali il risparmio e il lavoro sono sempre stati due ingredienti forti della loro permanenza in Belgio, almeno per la maggior parte di essi. L’emigrante in genere parte per l’estero con l’intenzione di rimanerci solo lo stretto necessario, solitamente da due a quattro o cinque anni. Il rientro definitivo, poi, si rimanda in continuazione, di anno in anno, fin quando la decisione di rimanere per sempre nel Paese d’adozione diventa un dato di fatto che si pone da sé, come il punto d’arrivo di una strada senza ritorno. Per molti connazionali la scelta migratoria è stata uno smacco dal punto di vista sociale, per il semplice fatto che nel loro Paese d’origine non sono riusciti a realizzarsi o a produrre qualcosa di personale: “non sono stato capace di costruire una famiglia nel mio Paese e sono dovuto emigrare altrove”. Poi, anche dopo molti anni o addirittura decenni, prima o poi si manifesta sempre un atteggiamento di rivalsa, ad esempio nel lavorare come dannati per potersi costruire una nuova casa nel Paese dei padri. Alcuni di essi all’estero vivono magari in alloggi di fortuna, ma in Italia hanno costruito una grande villa, pur di dimostrare che la loro emigrazione è valsa a qualcosa. Una sorta di rivincita sociale per dire a quanti sono rimasti: – Son partito all’estero, è vero, però ne è valsa la pena!… Io guadagno più di voi!… Ricordo molto bene, ad esempio, il comportamento singolare di un “toscanaccio” di Lucca: Mario, il Toscano. Egli, quando rientrava nel suo Paese, alle sette della mattina, cinque minuti dopo l’apertura del bar, era già là a prendere il caffè, che pagava con la banconota da diecimila lire. – Ma guardi, io non ho moneta!… – gli diceva il barista – Mi dispiace, ma io ho soltanto questi pezzi. Non ho moneta in tasca!… – era la sua risposta abituale. Questa scena lungo la giornata si ripeteva anche negli altri bar. Era un modo per ribattere ai sorrisi di commiserazione dei propri concittadini. Una formula per sentirsi qualcuno. Non dimentichiamo che le vacanze dei nostri emigranti, specie in Belgio, e in particolare per le famiglie provenienti dal profondo Sud, non erano certo semplici, serene e riposanti. A cominciare dal viaggio: tremila chilometri di strada, una maratona stressante. Poi l’accoglienza al proprio paese. Si partiva per l’Italia carichi di entusiasmo e di nostalgia. Arrivati al paese, la realtà li faceva sentire più stranieri a casa che all’estero. Venivano trattati come gli stranieri. In parecchi paesi nei negozi e nei ristoranti i prezzi per quanti rientravano erano più cari (tanto vengono solo un mese all’anno!). Le tradizioni da rispettare. La più pesante: il dover rendere visita a ogni singola famiglia di parenti vicini e lontani. Naturalmente il dover portare a tutti un regalo: vivi all’estero quindi sei benestante. Non ultimo, il grosso problema di tutti: l’aver costruito una casa bella e grande ma l’averla lasciata chiusa per undici mesi alle intemperie e alla salsedine. Giornate intere per arieggiarla, pulirla, problemi di manutenzione, idraulici, elettrici, ecc. Reperire alla svelta un falegname, un muratore, un idraulico e…non farsi ingannare sui costi. Molti Italiani al giorno d’oggi, tanto in Belgio quanto in Svizzera, soprattutto coloro che hanno vissuto in prima persona l’emigrazione, vivono forti contraddizioni sul piano culturale e sociale: come prima sono stati sradicati dalla famiglia in Italia per andare all’estero, così oggi rischiano di rivivere quella situazione nel momento in cui, arrivati alla pensione, decidono di rientrare in Italia. La loro permanenza all’estero si è protratta, trasformandosi da provvisoria in definitiva: hanno visto i figli – per i quali valeva ogni loro sacrificio – andare a scuola in Belgio o in Svizzera, avviarsi al lavoro, costruirsi una famiglia, … senza accorgersi che, proprio a causa loro, il rientro è risultato alla fine impossibile. Arrivato il momento della pensione ritorna la domanda cruciale: – Cosa facciamo? Dove andiamo? Ritorniamo in Italia o rimaniamo qui? Molti di essi hanno costruito la bella casa al loro paesello in Italia, che però non riescono ad utilizzare. La casa è rimasta il mondo dei sogni, l’eco di un progetto ormai lontano e impossibile. Quella casa, che una volta era uno dei più importanti e visibili argomenti dell’orgoglio dell’emigrante, oggi rimane quasi sempre chiusa e costituisce il segno di una sconfitta. Ho visto certe case, soprattutto nel leccese, con corridoi grandissimi, locali bene arredati, taverne e molti altri spazi, compresi appartamenti per figli e nipoti. Ma quei figli e nipoti, alla fine, non hanno interesse a venire in Italia e molti investimenti immobiliari sono risultati vani, addirittura un peso economico e causa di conflitti in seno alla famiglia. Dice il marito: “Ho lavorato tutta la vita per una bella casa e una vecchiaia serena al mio paese e ora che sono in pensione me la voglio godere”. Risponde la moglie: “Ti capisco, ma con quale coraggio andiamo via, così lontano, lasciando qui i nostri figli e nipotini?”. Il dramma dei figli che hanno abbandonato i genitori per andare all’estero, ora diventa il dramma di loro, genitori, che lasciano i figli per tornare in Italia.
La nostra emigrazione clandestina
La vita dei figli dei nostri emigranti non è stata facile anche per una sorta di dualismo culturale: quando essi, da bambini, uscivano di casa la mattina per andare a scuola, vivevano in un certo ambiente elvetico, con tutte le altre persone del posto, mentre al rientro in famiglia si tornava a parlare in dialetto e si vivevano le tradizioni italiane. I muri della casa rappresentavano una sorta di frontiera. Per molti questo doppio canale è diventato una ricchezza, perché chi ha saputo inserirsi positivamente in una simile situazione si è avvalso di una marcia in più, rafforzato da una pluralità di esperienze. Non è stato così per tutti. Tuttora all’estero, tanto in Belgio quanto in terra elvetica, c’è un forte senso d’italianità. In Svizzera l’Italiano è stato l’élite dell’emigrazione. Ma, anche da questo punto di vista, non è tutto oro ciò che luccica. I connazionali emigrati in Svizzera ancora prima della Seconda Guerra Mondiale si vergognavano di farsi riconoscere come tali da coloro che sono giunti in terra elvetica negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, probabilmente perché si sentivano ormai più Svizzeri che Italiani. Per la verità non erano molti e soprattutto già bene inseriti. In alcuni casi – anche questo aspetto non va dimenticato – l’emigrazione era ancora clandestina. Un emigrante di Berbenno mi ha raccontato un giorno la sua avventura. Quanti intraprendevano questa esperienza, partivano con uno zaino in spalla contenente qualcosa da mangiare. Si formavano piccoli gruppi di quattro o cinque persone. Camminavano di notte e di giorno rimanevano nascosti nei boschi, soprattutto verso l’approssimarsi della frontiera, per non farsi scoprire dai doganieri. Portavano appresso sempre un ragazzo di dodici o tredici anni, che mandavano avanti la notte lungo il percorso prestabilito: questi, dopo cento o duecento metri, saliva su una pianta e accendeva un piccolo segnale luminoso per dare il via agli uomini che potevano avanzare. Se una guardia frontaliera vedeva il ragazzino la mattina presto, questi poteva giustificare il fatto che si era inoltrato sin lassù in cerca di funghi, ma se avessimo visto quattro o cinque persone con lo zaino in spalla, non sarebbe stato difficile sospettare che si trattasse di contrabbandieri o emigranti clandestini. Poi, giunti in territorio elvetico, non andavano nei paesi, ma si rivolgevano alle fattorie disperse sulla montagna, chiedendo ospitalità e lavoro alle famiglie contadine. Così facendo, almeno per un periodo iniziale, si organizzavano mettendo in atto piccole precauzioni e rimanendo appartati, sino a che non riuscivano a parlare un po’ la lingua del posto. Gradualmente, poi, la domenica, con molta circospezione, scendevano in paese in cerca di altri connazionali e per trovare un lavoro più redditizio e sicuro. Quindi, per ultimo, si sistemavano e regolarizzavano la loro posizione. Non dimentichiamo che in Svizzera senza un contratto di lavoro non si entrava! Negli archivi comunali dei nostri paesi bergamaschi non è difficile rintracciare fogli di via e documenti che attestano il fenomeno diffuso dell’emigrazione clandestina lungo le zone di frontiera di Ventimiglia, Briga, Chiasso, … Quanti venivano scoperti erano dapprima incarcerati, quindi muniti di foglio di via obbligatorio e rimandati subito al Comuni di provenienza. Allora i clandestini eravamo noi. Diversi erano i connazionali clandestini, soprattutto coloro che non avevano ancora raggiunto la maggiore età e quanti non avevano avuto la possibilità di ottenere un contratto regolare di lavoro. In altri casi, modificavano i documenti d’identità, facendosi risultare maggiorenni; qualcun altro espatriava con i documenti di altri. Anche nella migliore delle ipotesi, quanti in possesso di un regolare contratto di lavoro e del passaporto, giunti alla dogana, dovevano scendere dal treno e recarsi al controllo medico di frontiera. Erano stati allestiti grossi stanzoni, separati per uomini e donne. Lì dentro, in gruppo, gli emigranti dovevano spogliarsi per essere “disinfettati” con il flit, come si disinfetta un oggetto. Anche le valigie venivano aperte e gli indumenti contenuti pure disinfettati. Quindi, dopo una radiografia al torace (per accertarsi che non avessero malattie polmonari), quanti ritenuti idonei alla visita medica con un treno successivo erano inviati in Svizzera a lavorare. Molti erano lavoratori stagionali, soprattutto boscaioli e muratori, i quali sarebbero poi rientrati alla fine della stagione. Ma allora, al rientro in Italia, nessuna autorità si sarebbe preoccupata di verificare il loro stato di salute. La visita medica era un fatto veramente umiliante. Figuriamoci cosa poteva significare far spogliare in gruppo le persone, l’una di fronte all’altra, tanto gli uomini quanto le donne! E chi non veniva ammesso, ossia giudicato non idoneo al lavoro, doveva tornare indietro. Non gli permettevano di oltrepassare la frontiera. Un vero dramma umano non solo per aver perso un’occasione, ma per essere stato come disonorato dalla dichiarazione di non idoneità al lavoro. Gli Svizzeri avevano bisogno solo di lavoratori, non di persone. Ma questa è una sorta di legge generale dell’economia.
Ó fàcc San Martì
A Seraing sono rimasto sino al mese di giugno 1984, prima di avviare una nuova esperienza in Svizzera, a fronte di una mia richiesta specifica motivata da questioni di salute. Due anni prima avevo dovuto affrontare un serio problema cardiaco. Una sera ero a Orly, in Francia, presso la comunità delle sorelle Poverelle e, durante una discussione, ho avuto una forte fibrillazione atriale. Sono rimasto ricoverato quindici giorni nell’ospedale di Créteil, alla periferia di Parigi, in terapia intensiva. Avevo chiesto, su indicazione dei medici, un avvicinamento, per continuare a prestare il mio servizio in un ambiente un po’ più sano, non così grigio e cupo come quello di Seraing. Ecco perché sono stato inviato in Svizzera, anche se, di fatto, nella Confederazione d’oltralpe si registra lo stesso tasso di mortalità presente in Belgio. Avevo fatto visita alla Missione di Yverdon, dove pareva fossi destinato e viveva Don Francesco Orsini, che in quel periodo era in partenza per l’Africa. Invece, un mese prima di partire, da Bergamo mi venne indicata un’altra sede, Neuchâtel, giacché il prete piemontese che prestava servizio (il quale aveva sostituito Don Egidio Bigoni), aveva deciso di rientrare e quindi c’era l’emergenza di garantire la continuità pastorale. Accettando tale incarico, ho trascorso a Neuchâtel circa un mese in compresenza con il sacerdote piemontese, Don Sergio Chiesa, e quindi sono rimasto là da solo nei sedici anni successivi. Sono giunto a Neuchâtel il 29 giugno 1984, in automobile, proveniente direttamente dal Belgio, con tutto il mio corredo. Con me viaggiava anche una suora, diretta a Bergamo. Non trovando il missionario in casa, ho telefonato a un prete missionario spagnolo, Diego Ramon, che mi è venuto incontro ad accogliermi. Dopo avere depositato il bagaglio nella Missione, sono rientrato in Italia, dove sono rimasto circa due settimane, prima di dare inizio alla nuova esperienza missionaria in terra elvetica. Noi preti, quando ci spostiamo da una parrocchia all’altra, viviamo sempre un piccolo o grande trauma, a seconda delle circostanze più o meno favorevoli e della nostra sensibilità, anche solo per il fatto di dovere ricominciare sempre tutto daccapo. C’è sempre l’incognita della pastorale, delle persone, delle situazioni. C’è il lasciare il mondo conosciuto verso l’ignoto. Ogni volta bisogna conoscere, incontrare, costruire nuove relazioni, definire le strategie, mediare, … A Neuchâtel ho incontrato un altro ambiente umano: non solo il clima e il paesaggio erano completamente diversi, ma le stesse persone erano variamente impegnate e portatrici di esperienze nuove. Non c’erano minatori di carbone e operai nell’industria pesante delle fonderie, come in Belgio, ma soprattutto muratori e boscaioli (connazionali del Nord Italia), oppure garzoni, camerieri e occupati nel terziario (quelli provenienti dal Meridione), quindi meno provati dalle fatiche fisiche. Non ho avuto problemi ad ambientarmi nella nuova cittadina elvetica. Mentre a Seraing ero inserito in una struttura di tipo parrocchiale, con un altro sacerdote e alcune suore, a Neuchâtel mi sono trovato solo, in un ambiente molto esteso e non concentrato, come era Seraing, dove nel raggio di circa dieci chilometri vivevano ventimila italiani. A Neuchâtel il raggio d’azione si estendeva a sessanta chilometri e quindi i servizi associativi e religiosi non potevano essere concentrati in un solo luogo, ma distribuiti sui diversi territori. Di conseguenza dovevo essere io ad andare da loro, perché molti connazionali erano impossibilitati a venire alla Missione. Inoltre, in Svizzera, anche il lavoro era strutturato diversamente e le fabbriche di orologi e di altri prodotti ad alta precisione, ad esempio, sono sparse un po’ dovunque, nei piccoli paesi di montagna, mentre a Seraing l’industria aveva seguito un processo di concentrazione attorno ai grossi centri. Luoghi strategici come Liegi e Charleroi. In Svizzera, dove gli stabilimenti sono dislocati nei vari paesi, le persone escono di casa e in poco tempo raggiungono il posto di lavoro, senza dovere percorrere grosse distanze. Anche sul piano pastorale, a Neuchâtel dovevo muovermi molto di più, per raggiungere i gruppi di connazionali distribuiti in tanti villaggi. A Seraing molti Italiani venivano alla Missione, in funzione dei diversi servizi scolastici, associativi e di patronato sociale lì offerti. A Neuchâtel, invece, noi avevamo solo una cappella, dove si celebrava la messa tutti i mercoledì, alle cinque del pomeriggio, e la casa del missionario. Non esistevano spazi per le associazioni o altri locali, quindi dovevo essere io ad andare da loro. A Seraing forse era più facile sentire la dimensione della comunità, mentre a Neuchâtel la stessa risultava maggiormente distribuita a raggiera, in tante piccole comunità sparse nei vari paesi.
Noi altri
A Neuchâtel ho operato da solo, con l’aiuto di una suora, dal 1984 al 2000. Non ho vissuto la solitudine come un dramma o un fatto negativo, bensì quale condizione necessaria per quel tipo di apostolato. Ho riflettuto sul tema della solitudine soprattutto quando, in quella Missione, sono stato sostituito da un altro prete bergamasco, che invece lamentava forti difficoltà in tale direzione. Ovviamente dipende molto anche dal carattere delle singole persone. Nell’area erano attive altre due Missioni, a Yverdon e La Chaux-de-Fonds, dove operavano rispettivamente due missionari bergamaschi, con i quali tutti i lunedì ci si ritrovava, trascorrendo insieme la giornata. Era una modo per recuperare una dimensione comunitaria, scambiarsi esperienze, affrontare insieme le questioni, … Un confronto assai utile. Poi, una volta al mese, facevamo un ritiro, sempre insieme, in un convento o presso qualche abbazia elvetica. A Neuchâtel, per raggiungere tutte le famiglie di connazionali, anche quelle più distanti dalla Missione, mi sono avvalso di un giornalino mensile. Noi altri – questo era il titolo della testata – usciva con dieci numeri l’anno e aveva una tiratura di quasi quattromila copie. Me ne occupavo personalmente, avvalendomi di un comitato di redazione costituito da connazionali. Tutti i giorni uscivo dalla Missione per visitare le famiglie. Avevo individuato alcuni giorni fissi della settimana per la visita agli ammalati ricoverati negli ospedali del circondario e agli anziani presso le case di riposo: cercavo di andarci soprattutto durante la visita dei parenti, per avvicinare anche quelli. Inoltre, organizzavo abitudinariamente corsi di formazione prematrimoniale nei paesi principali, dove convergevano i nostri connazionali che abitavano nell’area. Mentre a Seraing la Missione aveva una cappella abbastanza capiente per accogliere oltre cento persone, a Neuchâtel la chiesetta era molto più piccola (quaranta persone circa di capienza complessiva) e di conseguenza celebravamo le messe un po’ qua e un po’ là nelle varie chiese locali. A Seraing la messa nella Missione veniva celebrata sempre in lingua italiana, mentre alla periferia di Ougrée la dicevo in italiano il sabato sera e la domenica in forma bilingue, assieme con il prete belga. A Neuchâtel nella Missione la messa c’era solo nei giorni feriali, perché la domenica si celebrava in città, alle dieci e un quarto, nella forma solenne in italiano e per gli Italiani; inizialmente utilizzavamo la cappella di un collegio cattolico, in grado di ospitare circa cento persone, ma in seguito abbiamo chiesto la disponibilità di una chiesa parrocchiale cittadina: il sabato la utilizzavano gli Svizzeri, mentre la domenica era a disposizione nostra e dei Portoghesi. In compenso, a fronte del servizio reso, l’impegno della Missione consisteva nel devolvere alla parrocchia le offerte raccolte di una domenica al mese. Anche per incontri e riunioni affittavamo le sale offerte dalla parrocchia. I rapporti con i sacerdoti locali variavano in relazione alle singole persone e alla loro apertura. Io, ad esempio, a Neuchâtel mi sono inserito facilmente. Altri missionari hanno registrato alcuni problemi, in relazione al carattere timido e riservato, ma soprattutto per il fatto di non avere avuto alle spalle altre esperienze di pastorale nel contesto dei migranti. Giunto a Neuchâtel – allora non c’era il navigatore satellitare – ho preso in mano la cartina geografica e mi sono messo a visitare in lungo e in largo il circondario per orientarmi, avvicinare le persone, conoscere il territorio e la sua distribuzione umana e insediativa. Organizzavo appuntamenti per telefono e ho incominciato subito a tessere una rete capillare di relazioni.
Una doppia identità
Il sabato e la domenica celebravo diverse messe anche nelle varie parrocchie del circondario: il sabato sera, la domenica mattina alle nove, alle undici e mezzo, la domenica sera. Due messe in Val de Travers, una sul lungolago, due verso Bienne, … Insomma, il sabato e la domenica erano due giorni quasi sempre impegnati per le messe. Si viaggiava discretamente sulle strade. Per avvicinare tutti gli emigranti bisogna mettere in atto strategie diverse. Incontrare i Bergamaschi non era difficile, anzi di solito erano loro a invitarci nelle loro case per mangiare polenta e coniglio. Entrando, nel 1990, in una casa di Italiani, mi sembrava di tornare indietro nella mia casa del 1960. Pareva che il tempo si fosse fermato. C’era ancora la stufa a legna sulla quale cuocevano la polenta nel vecchio paiolo. Accanto alla stufa, ecco gli attrezzi di cucina appesi al muro. Molti Italiani si “sdoppiavano” nel modo di vivere: con gli Svizzeri cercavano di comportarsi da Svizzeri, ma in casa tornavano ad essere gli Italiani di sempre. Non è stato facile. Inizialmente ho avuto qualche difficoltà a rapportarmi con i connazionali provenienti dal Sud Italia, certamente a causa della mia estraneità alle loro tradizioni e modalità di comportamento. Nelle loro manifestazioni religiose, ad esempio, c’è sempre stato molto folclore. I matrimoni di Italiani celebrati a Bari o Molfetta erano accompagnati addirittura dai fuochi d’artificio. Con le autorità civili di Neuchâtel abbiamo sempre avuto buoni rapporti. Non si può sottacere che, durante la mia permanenza in quella regione, diversi figli di Italiani erano già inseriti nella società locale, sia sul piano civile che politico e dell’esercizio di mestieri e professioni. Non mancavano comunque rivendicazioni e lotte sociali. Ricordo, ad esempio, che nel 1986, nel corso di una campagna di sensibilizzazione pubblica, avevamo raccolto numerose firme per rivendicare il diritto di voto attivo e di elezione a favore degli immigrati. Nel Cantone di Neuchâtel prevaleva già il principio in base al quale chi pagava le tasse aveva il diritto di votare, ma non quello di essere eletto. Gli Italiani che vivevano lì e che pagavano le tasse andavano già a votare, però non potevano essere eletti. Dopo avere raccolto alcune migliaia di firme, in corteo e con l’appoggio delle varie associazioni, rappresentate da bandiere e vessilli, le abbiamo ufficialmente depositate al Parlamento cantonale, consegnandole nelle mani del Sindaco. Un evento solenne. Dal punto di vista pastorale e dell’apostolato, a Neuchâtel prevalevano gli impegni di carattere religioso (celebrazione delle messe e somministrazione dei Sacramenti) accanto a quelli di tipo relazionale, sul piano del contatto umano con le persone. Ad esempio, andavo spesso al mercato, che si teneva tre giorni la settimana: facevo il mio giro, perché sapevo di incontrare molti connazionali, anche quelli che di norma erano lontani spiritualmente dalla Missione. Era un’occasione di incontro che non mi potevo permettere di trascurare, soprattutto il mercato del sabato. Non era difficile incontrare gruppetti di Italiani per strada nel tardo pomeriggio, al termine della giornata di lavoro. Quale occasione migliore per stare insieme e socializzare un’esperienza non sempre facile? Come noi oggi ci meravigliamo di vedere la sera gruppetti di Marocchini o di Tunisini che invadono le nostre piazze, così alcuni decenni fa gli abitanti di Neuchâtel a volte si lamentavano di tali adunate spontanee, anzi alcuni non osavano più uscire, perché si sentivano minacciati o disturbati, giacché sostenevano che gli Italiani erano chiassosi, rumorosi, anche maleducati. È la storia che si ripete. Sul piano assistenziale la Missione non aveva le forze per intervenire a sostegno delle persone bisognose. In compenso, però, nella nostra sede ospitavamo anche un ufficio del Patronato Ital Uil, che seguiva sul piano assistenziale i connazionali. Poi, nei casi più gravi, poteva intervenire il Consolato, con il suo apparato di servizi. In linea generale chi si trovava in condizioni di bisogno non si rivolgeva al sacerdote, o raramente ciò succedeva, poiché ricorreva direttamente al patronato. C’è da dire che il sistema di sicurezza sociale elvetico era abbastanza avanzato e quanti lavoravano usufruivano di efficienti servizi di protezione sociale. Anche sul piano umano non ho registrato grossi casi di difficoltà, a differenza di quanto succede al giorno d’oggi qui da noi: tutti i giorni c’è qualcuno che bussa alla parrocchia per ottenere un aiuto o un piccolo sussidio per tirare avanti, per “mangiare”. Un vero disastro sociale.
Il lavoro come strumento principale di riscatto sociale
La preoccupazione principale dei nostri connazionali era quella di garantirsi un guadagno mensile abbastanza sostanzioso, per il quale fosse valsa la pena di emigrare. Del resto, avevano oltrepassato le Alpi per lavorare, non per altro. L’emigrante italiano si è sempre dato da fare molto per ottimizzare la sua presenza in terra straniera. Il marito, al termine del lavoro nello stabilimento, ad esempio, alle cinque di sera andava a “fare i giardini”, o si prestava per l’esecuzione di piccoli lavoretti di manutenzione. Era un modo per arrotondare lo stipendio. Così la moglie si rendeva disponibile per eseguire un servizio di pulizia o di stireria per conto di terzi. Tutto il tempo era impegnato nel lavoro, che ha rappresentato per essi lo strumento principale di riscatto sociale. Alcuni prendevano in affitto vigneti o prestavano la loro manodopera bracciantile presso gli agricoltori. Tutto “faceva brodo”. Molti lavoravano anche in nero. Gli ultimi anni della mia permanenza a Neuchâtel, con l’arrivo di molte famiglie di Portoghesi, si era manifestata una sorta di guerra tra poveri. Le donne italiane occupate a servizio nelle famiglie chiedevano di solito dodici o tredici franchi all’ora, mentre le donne portoghesi si accontentavano di soli sette o otto franchi. Tale forma di concorrenza provocava l’insorgenza di attriti e liti non indifferenti. In linea generale i lavoratori immigrati erano molto apprezzati nell’area. All’inizio, il primo anno di permanenza in Svizzera, sono rimasto sorpreso dal fatto che ora vi descrivo brevemente. Si stava costruendo il tunnel autostradale che attraversa la città e il giorno di Santa Barbara, per la precisione il 4 dicembre, i centocinquanta operai di quel cantiere erano in festa. Pochi i lavoratori italiani, mentre i dirigenti erano di lingua tedesca e avevano in mano la gestione della parte tecnica dei lavori. Vi lavoravano diversi extracomunitari, che vivevano isolati in baracche. Venni invitato dal parroco alla festa ed ebbi modo di conoscere il direttore dei lavori, un svizzero tedesco che parlava bene l’italiano. Mentre stavamo camminando, quando ancora non ci si conosceva, questi chiese al prete svizzero notizie sul mio conto: – Chi è quel signore?… – È il prete italiano che si occupa degli immigrati italiani… – Ah, sì?… lei è proprio il prete italiano di Neuchâtel?… – mi aveva chiesto. – Sì!… – è stata la mia risposta. – Benissimo! Benissimo! Padre, lei adesso può andare a casa!… – aveva detto, a questo punto, quel dirigente al prete svizzero. Gli Italiani si erano fatti onore su tutti i cantieri stradali elvetici, ma non solo: la 336 lingua ufficiale sui cantieri, in Svizzera, è quella italiana! Tutti i trafori elvetici sono frutto del lavoro di braccia italiane! E gli Svizzeri ne sono consapevoli. Gli emigranti italiani del Nord erano quasi tutti boscaioli o muratori. Essi arrivavano là a sedici, diciassette o diciotto anni, magari come braccianti agricoli, o garzoni, o manovali. Poi, col lavoro, imparavano a fare il muratore, con l’obiettivo di diventare, magari dopo venti o trenta anni, caposquadra di dieci o quindici muratori, oppure capo cantiere. L’emigrante del Sud, invece, iniziava a fare il “piccolo” del parrucchiere, o il garzone in un bar, per mettersi a lavorare in conto proprio dopo quattro o cinque anni. Nessuno di essi faceva il boscaiolo o il muratore, come invece erano Bergamaschi, Bresciani, Friulani, Veneti, … Bravi e qualificati muratori, assai richiesti dal mercato del lavoro locale. Essi hanno imparato a lavorare bene, perché in Svizzera i committenti sono molto meticolosi e, se il muro va fatto in un certo modo, non si sgarra e non ci sono scusanti per un risultato diverso. Quando io sono giunto in Svizzera, l’emigrazione stagionale era ormai un fenomeno concluso, salvo qualche caso particolare.
Non pensavo che fosse così difficile rientrare in Italia!
A Neuchâtel ci sono rimasto sedici anni. Dipendevamo dalla diocesi di Friburgo, perché Losanna e Ginevra, trattandosi di Cantoni protestanti, non avevano una sede vescovile. Certe volte mi chiedevo: – A Bergamo sanno che io esisto ancora? … Che si siano dimenticati di me? Al dodicesimo anno di permanenza in quella cittadina, ho chiesto alla Curia di Bergamo di essere trasferito. Per la verità a Neuchâtel io ci stavo benissimo e avevo instaurato ottimi rapporti con la popolazione. Nonostante sapessi che sarebbe stato un dolore, per me, lasciare l’incarico, nel 1996 sono andato dal Vescovo di Bergamo, Monsignor Roberto Amadei, e gli dissi: – Sono dodici anni che mi trovo lassù. Ritengo opportuno che, dopo tanto tempo, un prete abbia a cambiare parrocchia o Missione, perché altrimenti si diventa ripetitivi, il servizio diventa una routine. C’è il rischio di stagnarsi nelle diverse attività, senza un movimento o una scossa di novità. Vorrei dunque cambiare. Dopo tanti anni che sono in emigrazione, però, vorrei continuare a svolgere il mio operato in un’altra zona di Missione, possibilmente sempre di lingua francofona. Magari una Missione più piccola e meno impegnativa. Però tutto questo a una condizione: vengo via se mi garantisce con certezza che nella Missione di Neuchâtel voi mandate un altro missionario, perché ci sono diecimila italiani in quella regione, ripartiti in oltre quattromila famiglie… – Se vuoi cambiare Missione, fai pure, ma non ti garantisco di riuscire a mandare ancora qualcuno al tuo posto. Abbiamo pochi sacerdoti e non è facile trovarne uno disponibile a fare una simile esperienza… – mi rispose Monsignor Amadei. Non avendo ottenuto la garanzia richiesta, sono rimasto là dov’ero. Solo quattro anni dopo, nel Duemila, sono rimpatriato. Infatti, dopo quindici anni di Missione, a un certo punto mi sono rivolto a Monsignor Lino Belotti, nella sua funzione di Vicario generale, con cui ero in confidenza, al quale ho detto: – Vorrei cambiare Missione. Vorrei andare a Morges oppure a Nyon, in una di queste due realtà più piccole… – Se vuoi veramente spostarti, devi rientrare. A quel punto si rimette in gioco tutto quanto… – Ma il Vescovo non mi garantisce che a Neuchâtel mandi un altro missionario… – Se tu rientri, probabilmente il Vescovo ti sostituisce, perché non ci sarebbe una perdita di sacerdoti in Diocesi. Così ho fatto, seguendo i consigli di Monsignor Lino. Avevo ormai sessantadue anni e immaginavo che la Diocesi non mi avrebbe più affidato altro incarico in Missione. Supponevo l’assegnazione di una parrocchia, sino alla pensione, come poi si è avverato. Così sono arrivato a Tagliuno il 4 novembre 2000, dove mi trovo ancora adesso. Non pensavo che fosse così difficile rientrare in Italia! Nonostante io sia qui da circa dodici anni, di fatto con il pensiero non sono ancora rientrato. Io non sono ancora qui. Solo ora capisco quei due confratelli che, quando io ero ancora un bambino, abitavano vicino a casa mia: erano due preti Dehoniani in Missione nel Mozambico e, quando facevano ritorno a casa, di norma ogni tre anni, si fermavano circa un mese e mezzo, ma dopo soli quindici giorni erano irrequieti e dicevano: – Che noia! Che vita è questa qui? Non vediamo l’ora di tornare laggiù… Mi chiedevo come facessero a trovarsi così male qui da noi, dove, nonostante tutto, ci sono tutte le comodità e i servizi di ogni sorta! Ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire. Non avrei mai immaginato tanta fatica. In questi ultimi dodici anni di mia assenza si sono intervallati numerosi sacerdoti nella Missione di Neuchâtel. L’ultimo è rimasto là sei anni circa, prima di rientrare. La Diocesi di Bergamo era quasi intenzionata a non inviare là più nessuno, in considerazione del fatto che ormai gli Italiani si sono bene integrati in quell’area. Ma tra la Diocesi di Bergamo e quella di Friburgo esiste una specifica convenzione che disciplina l’invio di sacerdoti bergamaschi a Neuchâtel, La Chaux-de-Fonds e Yverdon. Di fronte alla mia scelta di rientrare, gli amici di Neuchâtel non hanno opposto resistenza: erano consapevoli che, dopo sedici anni, era giunto il momento del commiato. Dopo il primo missionario giunto a Neuchâtel, Don Giambattista Fasso, un Friulano, rimasto lassù venti anni, sono stato io il missionario più “longevo”. Li avevo preparati da alcuni anni. Gli Italiani di Neuchâtel si sono trovati sempre molto bene con i preti bergamaschi e li avevo rassicurati che, dopo di me, sarebbe arrivato un altro sacerdote della nostra Diocesi. Noi Bergamaschi abbiamo la capacità di stare con umiltà e disponibilità in mezzo alla gente e la gente si è trovata sempre molto bene con noi.
Quest’anno vorrei fare il prete e basta
Come vi dicevo è stato molto difficile rientrare. Ci sono cose che mi pesano più di altre, soprattutto sotto l’aspetto psicologico e dell’ambientamento. Vi dico la verità: mi sono trovato meno spaesato i primi giorni che sono giunto in Belgio, che non i primi mesi trascorsi a Tagliuno. Cito Tagliuno per dire qualsiasi altro paese o diversa parrocchia della Diocesi. Prima di tutto mi sono sentito investito, da parte delle autorità diocesane, di molte responsabilità di carattere gestionale e amministrativo: – Lei è il parroco ed è responsabile civile e penale della parrocchia, di tutte le sue strutture e degli ambienti. Lei deve curare bene soprattutto la contabilità… – mi è stato detto. Ho frequentato un corso per parroci – ero il più anziano – ma sono rimasto deluso perché la formazione ha insistito soprattutto sul senso di responsabilità, sulla tenuta dei registri dei Sacramenti, della contabilità, dell’archivio. Insomma, ho scoperto che la funzione del parroco consiste soprattutto nell’essere un prete che amministra la parrocchia. La mia vita a Seraing e a Neuchâtel era diversamente libera e sgombra da ogni apparato burocratico. Mi alzavo la mattina e mi dicevo: – Oggi è più importante che vada a trovare quella famiglia e quest’altra? Oppure quel malato all’ospedale?… Decidevo e partivo con l’automobile. Poi, già che ero in giro, andavo a fare la spesa al piccolo supermercato del paese, dove incontravo ancora qualcuno con cui scambiare alcune parole. Così operando, esercitavo il mio apostolato con le persone. Incontravo connazionali che mi invitavano a pranzo o a cena, con i quali instauravo relazioni umane. Si può essere dei buoni cristiani solo se si è brave persone e se, come tali, riusciamo a creare relazioni di amicizia e di simpatia. Prima dobbiamo essere portatori di umanità, poi forse riusciremo ad essere anche buoni cristiani, ossia promotori del messaggio evangelico. All’estero, nello spirito missionario, molte volte le giornate si improvvisavano, ossia si costruivano cammin facendo, privilegiando sempre il rapporto con le persone. Qui, in parrocchia, invece, tutto è preordinato, programmato anzitempo e impostato su basi formali. Qui le giornate sono quelle che sono. Un altro aspetto di cui ancora non mi capacito è che nelle nostre parrocchie ci siano il Consiglio pastorale e il Consiglio Parrocchiale per gli Affari Economici dotati solo di funzioni consultive. Se voglio fare una cosa, come parroco, convoco il CPAE e informo i membri sull’iniziativa; se qualcuno di loro o tutti non sono d’accordo, ho l’autorità di procedere ugualmente e quindi non esiste democrazia. In Missione, invece, ero abituato che la parte amministrativa veniva svolta da un consiglio di laici, rappresentato dal Presidente della Missione. Mi pesa enormemente la gestione amministrativa della parrocchia. Recentemente sono stato convocato in Curia per un confronto circa le mie intenzioni: – Quest’anno compi settantacinque anni di età. Cosa intendi fare? Continui a fare il parroco o ti ritiri?… – mi è stato chiesto. – Quest’anno vorrei fare il prete e basta. Rinuncio ad ogni forma di amministrazione dei beni ecclesiastici della parrocchia… – ho risposto senza indugio. Non ce la faccio più a sostenere questa vita doppia, di prete e amministratore.
Ancora oggi è come se mi sentissi qui provvisoriamente
Il rapporto con la gente è diverso. Tanto a Seranig quanto a Neuchâtel ci sentivamo tutti italiani, amici, e ci davamo del tu, a prescindere dalle rispettive condizioni sociali. Io sapevo che loro erano operai, boscaioli, muratori, funzionari, … e loro sapevano che io ero un prete, anche se mi vestivo come loro. C’era una tacita ma efficace intesa, soprattutto un atteggiamento di reciproca stima e fiducia. Nelle nostre parrocchie in Italia, invece, bisogna adeguarsi anche esternamente ai comportamenti di ruolo, nel mio caso alla funzione di parroco. La nostra gente accetta magari che il curato vada in giro con i pantaloncini corti, assieme con i giovani, ma non il parroco! Il parroco è parroco e deve avere un modo di vestire e di parlare che il ruolo esige. Mi sono sentito un po’ in gabbia. Controllato. Non dico spiato, ma osservato da molti occhi puntati contro. Potrei raccontarvi tanti piccoli fatti. Dopo quindici giorni che ero qui, il giorno di mercato mi si presenta dinnanzi, in canonica, una donna offrendomi un sacchetto di plastica: – Prenda, questo è per lei!… – mi dice in dialetto. – Cosa è?… – Ci guardi!… – mi rispose educata ma seria. Apro il sacchetto e vedo che contiene un paio di pantaloni. – Signora, non si offenda, ma di pantaloni io ne ho. E poi, se mi servono, li vado a comperare su misura… Come mai vuole regalarmi un paio di pantaloni, scusi?… – le chiesi in modo garbato. – Glieli regalo perché i pantaloni che indossava ieri non sono adatti per un parroco! Al momento ho provato un forte senso di delusione: – Dove sono capitato?… – mi sono chiesto. Poi ho riflettuto e con calma mi sono convinto della buona fede di quella signora. Con quei pantaloni, di quel colore scuro, certamente pensava di farmi, più che un regalo, un favore. Era innocentemente convinta di aiutarmi “a comportarmi da parroco nella Diocesi di Bergamo”. Ero impreparato a simili prese di posizioni. A Seraing e a Neuchâtel un tale comportamento non sarebbe mai successo. Un’altra volta mi hanno chiamato per dare la benedizione a una persona che da pochi minuti aveva dato l’ultimo respiro. Ho preso la bicicletta e mi sono avviato verso l’abitazione del defunto, situata a pochi passi dalla casa parrocchiale. Tre donne si stavano recando là pure loro e, vedendomi pedalare, avevano commentato: -Té…àrda ol preòst in biciclèta!… – dice la prima. – A ga l’avrà tuìda sö a ergü!… – risponde la seconda. Non accettavano l’idea che il parroco possedesse e utilizzasse la bicicletta. Comportamenti e valutazioni utili per comprendere il modo di essere e di fare delle persone delle nostre parrocchie in Italia. Ho vissuto notevoli difficoltà, nonostante abbia cercato di adeguarmi alle abitudini e alle tradizioni locali. Non do la colpa alla gente, ma a come è stata educata e ai parroci che ha avuto e che si sono sempre imposti sulla popolazione. Mi viene da pensare che molte volte la gente sia stata tenuta sottomessa, abituata a obbedire e tacere, piuttosto che vivere in maniera spontanea e familiare i propri rapporti con i sacerdoti, il parroco in particolare. Preferisce obbedire a un parroco, piuttosto che mettersi a dialogare e discutere con lui sul piano umano. Qualcosa sta cambiando, soprattutto nei giovani, ma la strada è ancora lunga. Ogni tanto c’è ancora qualcuno che viene a dirmi: – Sciùr preòst, e l’se regòrde che ol preòst l’è lü! Al’ga dàghe mia scólt a la zét! Lü e l’fàghe chèl che l’gh’à de fà!… È un modo di dire abbastanza ricorrente, che esprime un atteggiamento di riverenza quasi assoluta. L’insieme di tali modalità relazionali ha reso difficile sostenere questa situazione. Rientrato in Italia mi sono sentito spaesato, anche sul piano psicologico, come avviene per un pesce fuori dall’acqua. Quando andavo a fare la spesa, inconsciamente dicevo a me stesso: – Non posso acquistare più di cinquecento grammi di carne o duecento grammi di burro!… Mi veniva in mente la dogana svizzera, dove dovevo dichiarare ogni volta quanto avevo con me. Pensavo di avere scacciato per sempre queste cose, che invece ritornano con frequenza. Ancora oggi è come se mi sentissi qui solo provvisoriamente, in vacanza. Fisicamente sono qui, ma il mio cuore e la testa sono ancora altrove, nonostante io mi trovi bene dove sono, con gente buona che mi ha accolto veramente. Ho mantenuto pochi rapporti con quei contesti d’oltralpe. Sono ritornato a Neuchâtel solo un anno e mezzo fa, a distanza di circa dieci anni dal mio rimpatrio. In principio molti italiani di Neuchâtel, quando venivano in gita in Italia, passavano da Tagliuno in pullman: si fermavano da me per un saluto, mangiavamo qualcosa assieme e poi proseguivano. Quando vivevo a Neuchâtel, infatti, avevo organizzato le vacanze al mare per i pensionati: due turni a Misano Adriatico (giugno e luglio) e un turno a settembre. L’iniziativa funzionava bene ed era un modo per stare insieme e ritornare in Italia. A un certo punto ho dovuto intervenire, invitando quegli amici a non passare più da me, perché il missionario che mi ha sostituito in Missione, oltre all’impegno del suo incarico, doveva fare i conti con quanti mi utilizzavano come termine di paragone: – Ma don Pietro faceva così. Ma Don Pietro faceva cosà!… Se voi aveste visto le lacrime di quella gente! Alcuni si chiedono se abbia ancora un significato mantenere operanti le Missioni Cattoliche Italiane in un contesto europeo. Per la verità io da Neuchâtel sono venuto via anche per un altro motivo. Avevo detto alla gente che era arrivato il tempo in cui il ruolo della Missione non è quello di fare comunella, o di costituire una comunità separata soltanto tra di noi, ma deve servire come aiuto per travasare la comunità della Missione nella comunità locale – La lingua l’avete imparata, i vostri figli ormai hanno studiato qui e si sono fatti una posizione, quindi dovete considerare la comunità locale come la vostra comunità… – dicevo loro, ma mi rendevo conto che questo passaggio è difficile e i nostri Italiani, soprattutto gli anziani, hanno ancora bisogno del nostro riferimento. La presenza della Missione continua ad essere sentita e probabilmente non è giunto il momento della smobilitazione. La ragione di esistere non è quella di cinquant’anni fa, ma attualmente è soprattutto di ordine culturale e sociale: il carattere cordiale ed espansivo, anche creativo, dell’Italiano ha bisogno di dare più spazio al cuore che alla testa e, di conseguenza, esige di vivere momenti con partecipazione ed entusiasmo, senza formalismi, animato da sentimenti spontanei. Le Missioni italiane hanno anche questo compito, cioè di trasmettere il linguaggio italiano nelle varie espressioni religiose, anche sacramentali. Hanno cioè la responsabilità di continuare a comunicare un modo di essere Chiesa che le comunità di connazionali all’estero hanno costruito e rappresentato nei decenni scorsi. Noi celebravamo le messe in lingua francese, ma nello stile italiano, cioè con un modo di fare tutto nostro. La Chiesa, anche in Svizzera, è un po’ burocratica e i nostri connazionali sentono il bisogno di costruire o mantenere contatti sulla base di relazioni amicali partecipate. Senza la presenza delle nostre Missioni nei cantoni protestanti, anche nei preti cattolici locali rischia di prevalere una formazione e una cultura protestante. Vi faccio questo esempio. Dopo alcuni anni a Neuchâtel, vista la grande partecipazione dei connazionali alla Messa di commemorazione dei defunti il due novembre, avevo chiesto di potere avere a disposizione la cattedrale, in grado di contenere circa ottocento persone. Pensate: la chiesa era strapiena! Al termine della messa cantata, quale canto finale avevo inserito “Cimitero di rose”. Prima, però, l’ho presentato: – Io vengo da Bergamo, un paese di emigrazione. Questa canzone è stata scritta per ricordare i nostri emigranti che, lavorando all’estero, specialmente in Svizzera, con le leggi rigide che c’erano un tempo, non sempre ottenevano il permesso di rientrare, nemmeno per andare a casa a seppellire i propri morti!… Se voi aveste visto le lacrime di quella gente! Quel canto lo inserivo sempre nelle nostre manifestazioni, anzi era diventato il canto dell’emigrante. Al termine della celebrazione ho incontrato fuori della chiesa il parroco, il quale assisteva alla fiumana di persone che usciva dal luogo di culto. Mi aveva chiesto con meraviglia: – Don Pietro, cosa stai combinando?… – Ho celebrato la Messa adesso e la gente sta ritornando a casa!… – E che Messa hai fatto?… – Beh, oggi è il 2 novembre, la messa di commemorazione dei defunti!… – Pietro! È il due novembre! Guarda che tempo c’è! Lascia stare i morti e stai a casa anche tu tranquillo!… – aveva concluso. Questo per dire la freddezza che c’era. Il senso di distacco. Nella nostra Missione il giorno delle Palme e il “Giorno dei Morti” sono diventate le due ricorrenze più sentite e partecipate. Venivo a prendere gli ulivi a Predore con un camioncino e li portavo sin lassù, per la distribuzione la Domenica delle Palme. Li facevo distribuire all’ingresso della chiesa, e, dopo la benedizione, le persone erano felicissime di portare a casa propria questo prezioso segno di benedizione e di pace. Alcuni ne prendevano dei mazzi, che avrebbero portato a parenti e amici. Un giorno avevo rivolto questo invito in chiesa in chiesa: – Al momento della pace, scambiatevi gli ulivi che avete in mano!… La proposta non funzionò: molti evitavano lo scambio, per non privarsi del mazzo che avevano da selezionato con cura. Di solito, prima e dopo la celebrazione della messa, mi ponevo sempre all’esterno dell’ingresso principale della chiesa, per aspettare le persone e salutarle. Era un modo anche quello di incontrare le persone e ringraziarle di essere intervenute. Davo la mano a tutti, accompagnandola con una parola di saluto e un arrivederci.
Lassù mi sono sentito prete
Ho dedicato venticinque anni della mia vita ai nostri emigranti e penso di avere dato tutto quello che mi era possibile fare. Ho ricevuto anche molto. In conclusione: sono stati gli anni delle più grandi soddisfazioni umane e spirituali! Lassù mi sono sentito prete. In Belgio ho avuto la grazia di poter stare vicino a tante persone che soffrivano e si preparavano a morire a causa della silicosi. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Per principio non separo l’aspetto umano da quello religioso, la pastorale religiosa dai valori umani e sociali delle persone. Un servizio religioso lo si offre con umanità, fatto bene, vissuto ancora meglio, partecipato come si conviene per le cose più care. Oltralpe ho avuto la possibilità di vivere insieme ai nostri connazionali. Non sono andato “per” ma “con” gli emigranti. Non sono partito per necessità o costrizione, ma a séguito di una mia manifestazione di volontà. Sono grato a Dio per le soddisfazioni che ho ricevuto, giacché come uomo e come prete ho potuto sentirmi utile agli altri e mettermi a servizio della popolazione con la mia modesta e umile presenza. Ho creduto molto nelle relazioni umane. Al centro della mia attività ho sempre posto l’uomo. La relazione umana è la base sulla quale costruire anche un messaggio religioso, dove edificare la cattedrale della Chiesa. Un funerale, un matrimonio, una semplice messa, una festa, … sono eventi che, se preparati bene sul piano umano, risultano riusciti sin dall’inizio. Come sacerdote ho sempre cercato di condividere le modalità di essere e di partecipare alle vicende della vita di ciascun gruppo sociale. Questa relazione di vicinanza non l’ho trovata nelle nostre parrocchie in Italia, dove prevale ancora il detto al parroco: leàga ol capèl e lassàl ‘ndà! Le persone, nelle parrocchie della nostra Diocesi, tendono a tenere una certa distanza. Osservano e giudicano, difficilmente partecipano e condividono fino in fondo. Anch’io, quaggiù, mi sono un pochino chiuso. All’estero ho giocato in attacco, ossia uscivo sempre dalla Missione ed ero continuamente a contatto con la gente, mentre qui, nella parrocchia dove vivo da alcuni anni, sono rimasto in difesa. In quel contesto d’Oltralpe mi consideravo un emigrante al servizio degli emigranti, in una realtà dove potevo veramente condividere, dedicarmi ai nostri connazionali e lottare al loro fianco perché avessero rispetto, fossero bene accolti, non discriminati e venissero riconosciuti i loro diritti. In sostanza… perché si sentissero un po’a casa loro anche lassù, dove erano saliti solo per lavorare e perseguire il progresso delle proprie famiglie, non certo per altri motivi. L’immigrazione in Italia, in special modo quella extracomunitaria attuale, è avvenuta in modo diverso, più aggressivo, in forma massiccia. Sono arrivati qui non soltanto i migliori o i più buoni. Quanti tra essi sono giunti circa vent’anni fa, i primi per intenderci, attualmente hanno un lavoro e si sono inseriti nella realtà locale, ma non così si può affermare per coloro che sono entrati negli ultimi anni in modo disordinato. Ultimamente ho viaggiato parecchio e sono stato anche in Tunisia e in Marocco, dove mi sono reso conto di alcuni aspetti da noi sottovaluti. Un giorno ad Agadir (Marocco) ebbi l’opportunità di avviare un colloquio con un gruppo di locali: – Anche noi, in Italia, abbiamo Marocchini… – avevo detto ad alcuni di loro. – Ce ne sono molti su da voi?… – mi hanno chiesto. – Eh, sì! Ne abbiamo molti!… – Teneteli su voi quelli lì!… – è stata la loro conclusione. Mi sono reso conto in quel preciso istante di una triste realtà, e cioè che non tutti gli immigrati dell’ultimo periodo sono venuti da noi per svolgere lavori onesti. Un ruolo molto negativo e distorsivo della reale situazione dell’Italia e della vita degli Italiani viene svolto dalla nostra televisione, sia pubblica che privata. – Noi qui capire italiano. Noi qui vedere Italiani… Là paese dei balocchi!… Là donne mezze nude che ballano. Tutte le sere giochi, soldi che si vincono. Feste!… Allora, perché non venire anche noi da voi?… – mi dicevano. Questa è l’immagine che tutte le popolazioni del bacino di nazioni attorno al Mediterraneo si fanno della nostra Italia! Una sorta di Paese del Bengodi. La nostra è una televisione al limite della decenza, con un linguaggio scurrile, offensivo. Grazie ai moderni sistemi di comunicazione, la nostra televisione è vista da tutti quei Paesi. Molti vengono qui pensando che da noi stanno tutti bene e che è facile vivere anche senza lavorare. Una grande illusione per loro, una figura meschina e disonesta per noi! La nostra emigrazione è stata un fenomeno diverso rispetto all’immigrazione che osserviamo oggi in casa nostra. Noi dobbiamo essere orgogliosi dei nostri emigranti di ieri, perché si sono fatti onore con il lavoro e il bagaglio di valori e di comportamenti che hanno trasferito all’estero. Sono state persone generose, dal temperamento umano socievole e cordiale, con capacità professionali e tecniche elevate, duttili e in grado di sostenere situazioni diverse e difficili. Anche sul lavoro sono stati capaci di essere versatili, contrariamente agli Svizzeri, molto più rigidi, inquadrati e difficili al cambiamento. Pure sul piano religioso, i nostri connazionali hanno dato un forte contributo. Penso che, se le parrocchie della Svizzera non avessero gli immigrati soprattutto di Italia, Spagna e Portogallo, potrebbero chiudere domani mattina! Sono veramente poche le persone svizzere che praticano e sono soprattutto anziane. Se dovessimo allestire un museo dell’emigrazione, inserendo in una stanza alcuni oggetti in grado di rappresentare la nostra esperienza migratoria, non dovrebbero mancare innanzitutto gli strumenti del lavoro. I Nostri sono partiti per lavorare. Poi inserirei le fotografie delle feste dei vari gruppi di tutte le regioni italiane. Quindi ricostruirei anche alcuni drammi che hanno vissuto le nostre comunità, come le fotografie dei funerali dei nostri minatori. Ecco il nostro obiettivo: ricomporre, ripresentare e documentare la dimensione umana di quella straordinaria esperienza di popolo migrante.