Diciamocelo chiaramente. Quando si torna a casa, dopo essere stati magari lontani da Bergamo per un tempo abbastanza lungo, la prima parola che sentiamo pronunciata nel nostro bel dialetto ha il potere di aprirci il cuore. Ma da dove viene e da quanto si parla il dialetto bergamasco?
La sua origine pare sia antichissima. Tito Livio racconta che, quando nel 587 a.C., le orde celtiche di Belloveso passarono le Alpi stabilendosi nel piano lombardo, furono subito seguite dai Galli Cenomani, i quali attraversarono l’Adda e presero casa nelle nostre terre. Qui, pare abbiano cominciato a chiamare con voci della loro parlata le piccole comunità che andavano fondando. I nomi di molti luoghi della nostra provincia, dunque, trovano una sufficiente spiegazione con l’uso del celtico. Così, per esempio, Bèrghem (Berg-haim) vorrebbe dire abitazione montana, Ada (l’Adda) acqua chiara, Sère (il Serio) acqua che scorre sotterranea, Braca (Bracca) sperone di roccia, Par (Parre) campo esteso, ecc.
Col passare dei secoli, però, il nostro bergamasco, pur mantenendo le voci di derivazione celtica, si è arricchito di altri vocaboli appartenenti a idiomi diversi. Alcuni hanno avuto un’origine onomatopeica, derivando, cioè, dai suoni. Sgnaolà da noi è miagolare, gri è il grillo, tru è il tuono, ciuicì la cinciallegra. Alcuni altri provengono da lingue diverse, magari decadute. Così lӧcià (piangere) viene dal latino lugere, catà (cogliere) sempre dal latino captare, frӧst (logoro) ancora dal latino fruere. Bicér, bicchiere, deriva dal gotico bicher, mentre biόt (nudo) dal tedesco blos; sbregà (rompere) sempre dal tedesco brechen, così come sbrofà (spruzzare) da tropfen. Il vocabolo tata, usato in molte zone per indicare il padre, deriva quasi certamente dallo slavo tato.
Nel dialetto bergamasco, che è poi la nostra lingua del cuore, esistono modi di dire che manifestano tutta l’arguzia e l’ingegno della nostra gente. Cose “indà a rӧda” (godere a sbafo), “menà a viӧle” (prendere per il naso) “troà chèl del formài” (trovare chi dà del filo da torcere) fanno parte del nostro lessico quotidiano, così come “fàn ӧna pèl” (ridere a crepapelle).
Che dire poi delle piccole comunità, soprattutto montane, che hanno un loro gergo particolare? Mi riferisco a Parre, in Val Seriana, incomprensibile anche per gli abitanti dei paesi vicini. Ebbene, qui si parla il gaì, che ha avuto origine quando la lotta tra pastori e proprietari terrieri obbligò i primi a crearsi un linguaggio che i loro antagonisti non potessero capire. Qualche esempio può aiutare. La gamba in gaì è la fusèla, la fangusa è la scarpa, la santusa è la Messa. Bere un bicchiere in bergamasco è “bìen ü bicér”: in gaì diventa “stoblà ü torlènch”. Andare a casa in bergamasco è “indà a cà”, mentre in gaì è “trapelà al baèt”. Andare a letto a dormire in bergamasco è “indà in lècc a durmì”, mentre in gaì si trasforma in “trapelà ‘n dol gnas a patӧmà”.
Chi ha mai detto che gli orobici mancano di fantasia?
Giusi Bonacina
Bergamo, 10 ottobre 2021